di Giovanni Cattarino
già Consigliere della Corte costituzionale e Capo Ufficio Stampa
La Corte tutela la libertà dei giornalisti… ma non solo! (Sentenza n. 150 del 2021).
Il timore del carcere può costituire un freno per i giornalisti e impedire loro di svolgere l’attività di informazione, che è fondamentale negli ordinamenti democratici. È quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n.150 del 2021, consultabile sul sito www.cortecostituzionale.it, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948 n.47, la “legge sulla stampa”. L’articolo prevede che nel caso di diffamazione commessa a mezzo stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni insieme a quella della multa non inferiore a euro 258.
La Corte ha ritenuto che la previsione per ogni caso di accertata diffamazione di una pena detentiva da infliggere insieme alla pena pecuniaria, rappresentasse una violazione della libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 Cost. e dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, sulla “libertà di espressione”. La Corte ha condiviso la posizione più volte assunta dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, contraria a una previsione generalizzata del “carcere per i giornalisti” ritenuta di ostacolo al loro insostituibile e meritorio ruolo di “cani da guardia “della democrazia.
Tuttavia, se da un lato occorre tutelare la libera manifestazione del pensiero, declinata come diritto di cronaca e di critica dei giornalisti, pietra angolare di ogni sistema democratico, dall’altro non può essere trascurata l’esigenza di difendere le persone da campagne giornalistiche diffamatorie gravemente lesive della loro reputazione e condotte nella consapevolezza della falsità degli addebiti mossi alle vittime. La Corte non manca di rilevare quanto nell’attuale società dell’informazione la pervasività dei nuovi strumenti comunicativi amplifichi, anche nel tempo, il c.d. “danno reputazionale”. Vanno “bilanciati” due diritti: quello del giornalista a esercitare la professione senza indebite intimidazioni e quello del cittadino a non essere diffamato.
Qui soccorre l’art. 595, 3° comma, del Codice penale anch’esso denunciato per sospetta incostituzionalità, ma che la Corte ha “salvato” purché se ne faccia l’applicazione da lei auspicata. L’art. 595 c.p. al primo comma punisce colui che “comunicando con più persone offende l’altrui reputazione” con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1032. Il terzo comma dell’articolo prevede un’aggravante: se l’offesa “è recata a mezzo della stampa… la pena è della reclusione da sei a tre anni o della multa non inferiore a euro 516”.
A differenza di quanto previsto all’art. 13 della “legge sulla stampa”, per il Codice penale pena detentiva e pena pecuniaria sono alternative e non cumulative. L’eliminazione dell’art. 13 della l. n.48/1947, “lex specialis” nella materia, fa sì che l’art. 595, 3° comma c.p. si riespanda e si applichi di nuovo alla diffamazione a mezzo stampa. Il giudice potrà quindi punire gli atti diffamatori con la multa, qualora siano stati soltanto oltrepassati i limiti propri al diritto di cronaca e di critica, riservando invece la reclusione ai reati di eccezionale portata diffamatoria, senza che ciò costituisca una indebita intimidazione nei confronti di un corretto esercizio della professione giornalistica, con relativa violazione dell’art. 21 Cost.