Il 18 maggio saranno passati tre anni dalla morte di Franco Battiato. Tre anni che, forse, non ci hanno insegnato nulla. A stento siamo in grado di comprendere un testo sintatticamente dignitoso, figuriamoci di imparare qualcosa da un cantautore morto. L’unica cosa che magari dovremmo apprendere, a nostre spese, è che quando un artista muore, muore. Vanno benissimo gli eleganti omaggi alla memoria, ma si esaurisce lì: se crepi, crepi pure se sei Franco Battiato. Su Battiato non c’è nulla da aggiungere rispetto a quello che è stato in vita: un genio, uno sperimentatore, una creatura piovuta in mezzo a noi che a un certo punto se n’è andata, e via con tutte le etichette di circostanza.
Battiato è quasi sempre un fantasma che si insinua tra le pose di trentacinquenni che sfoggiano un aforismario da status Msn, tra le memorie vivide di settantenni barricaderi e solitari, e quelle manciate di giovanissimi che ribadiscono come musica, sentimenti e Storia abbiano assunto rilevanza solo dopo la loro nascita. In mezzo, quelli che lo chiamano “Franco” come fosse un cugino di secondo grado, quelli che quando vogliono fare i simpatici si auto-convincono che basti inforcare un paio di occhiali scuri “per avere più carisma e sintomatico mistero”, quelli che “bella l’imitazione di Fiorello”. Sì, in “Testamento” (‘Apriti Sesamo’, 2012) Battiato canta “E mi piaceva tutto della mia vita mortale, noi non siamo morti, e non siamo mai nati”, e questo va bene per gli ottimisti e per i buoni di cuore. Nello stesso brano, tuttavia, cantava pure “Lascio agli eredi l’imparzialità, la volontà di crescere e capire”.
Chissà cosa capiamo davvero, chissà come cresciamo, quando muoiono gli artisti, per dirla con degli scritti di Baudelaire che non ricordiamo più. Certo non capiamo come essere meno sciatti, come quando con indolenza continuiamo a suonare un brano pur incredibile come “La Cura” in omaggio al maestro, trascurandone altri parimenti bellissimi come “Gente in Progresso” (da ‘Orizzonti Perduti’, 1983). Questo perché la pigrizia è più comoda pure della riscoperta, per noi che giochiamo a fare i ricercati ma decidiamo quali brani siano “minori” rispetto ad altri solo perché non li conosciamo.
Quella stessa “Gente in Progresso”, con musiche anche di Giusto Pio in cui Battiato canta “E tu che fai di sabato in questa città dove c’è gente che lavora per avere un mese all’anno di ferie”, senza dover ricorrere a parole come “burnout”, ma restando onestamente attuale pure a quarant’anni dalla diffusione. Chissà cosa capiamo davvero, dalla morte degli artisti, chissà cosa avrebbe pensato Battiato, della sua: tra esponenti dell’arte e della scrittura che si scannano sulla sua tomba, fulminei omaggi sanremesi e citazionismi a buon mercato, forse poco.
Qualcuno potrebbe obiettare che in fondo gli è andata bene: considerato quanti artisti dimentichiamo mentre sono ancora in vita… e non avrebbe torto. Magari la verità è che, nel caso di Battiato, non abbiamo mai meritato nulla. Gente infame che non sa cos’è il pudore, per citarlo, e perché il Novecento ce lo siamo giocato non appena abbiamo capito che potevamo diventare famosi con il cellulare. E siamo diventati palinsesti di noi stessi, mentre Battiato, Giusto Pio, Milva, Giuni Russo, Manlio Sgalambro e molti altri tentavano, con gli ultimi colpi di coda tra corpo e arte, di ricordarci quanto fosse importante conquistarsi l’eredità di qualcosa.
Battiato, però, ci ha visto lungo: in “La musica muore” l’aveva capito, che “sono anni che non cambia niente”, e che quindi si crepa, si viene dimenticati se non nella forma di omaggi polverosi e frasi fatte, che tutto muore, figurati l’arte, figurati la musica.
La differenza tra Franco Battiato e altri artisti a caso con qualche primavera sulle spalle – Riccardo Fogli? Pupo? Luca Madonia? Viola Valentino? Patty Pravo? Mal dei Primitives? Alice? Al Bano? Sibilla? Tutti questi, alcuni vicini al metaverso di Battiato e altri no, accorpati? – non è misurabile dal termometro della rilevanza artistica.
È che uno è morto e gli altri ancora no, e possono godere dell’ignoranza di chi non li conosce, della malinconia di chi li ricorda, dell’indifferenza di chi pensa ad altro. Lo squilibrio non sta nel fatto che uno cantava “Summer on a Solitary Beach” e uno “Storie di tutti i giorni”. È che uno non respira più e l’altro può chiedersi quanta eredità di sé resterà ai posteri, ammesso che si voglia credere davvero che nel 2050 ci siano giovani cui qualcuno si preoccupi di insegnare Galileo o Petrarca, mica i cantautori. Di recente Loredana Bertè, in un godibile programma d’interviste condotto da una giornalista che parla l’italiano di Roma Sud, ha affermato che morire su un palco per chi fa musica, parafraso, sarebbe una grande soddisfazione. Non volendo mancare di rispetto a una delle rocker più importanti di tutti i tempi, viene da dire che la soddisfazione più rilevante, per gli artisti, è quella di tenersi stretta la pelle. Per i Maestri e per l’imbrunire c’è ancora tempo.