ROMA – È opportuno chiarire preliminarmente la distinzione tra “decadenza” e “prescrizione”. Due concetti molto importanti sebbene anche il Legislatore, quello tributario, in qualche caso abbia fatto un po’ di confusione (vedasi, ad esempio, la prescrizione – triennale – delle tasse automobilistiche).
In generale, si ha decadenza quando l’esercizio di un diritto/potere viene impedito a causa dell’infruttuoso decorrere di un termine previsto dalla legge. Anche l’Ufficio fiscale, pertanto, se vuole notificare un accertamento per far valere il suo diritto/potere di riscuotere la pretesa fiscale, deve farlo entro i termini precisi (di solito cinque anni) previsti delle singole leggi d’imposta. Trascorso infruttuosamente tale termine, la possibilità di notificare un valido accertamento viene meno.
Si ha prescrizione, invece, quando, sempre a causa dell’infruttuoso decorso del termine previsto dalla legge, una volta acquisito il diritto (avendo rispettato i termini di decadenza previsti dalla legge), il creditore non lo ha fatto valere nei confronti del debitore. Se, per esempio, dopo aver fatto un accertamento fiscale e dopo averlo notificato entro il termine di decadenza previsto dalla legge (quindi acquisito il diritto di ottenere la pretesa fiscale), l’ufficio o l’agente della riscossione non pone in essere nessun atto volto alla sua riscossione (di solito l’accertamento impoesattivo, o l’iscrizione a ruolo con la conseguente cartella di pagamento), il diritto (già acquisito) si prescrive e, conseguentemente, può essere non pagato dal debitore.
A norma dell’articolo 2964 del codice civile mentre la prescrizione può essere interrotta o sospesa, la decadenza non può mai essere interrotta e può essere sospesa solo nei casi espressamente indicati dalla legge.
L’articolo 3, comma 3, della Legge 212 del 2000 (Statuto dei Diritti del contribuente), dice pure che “I termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati”.
Si noti che la prescrizione, ai sensi dell’art. 2938 CC, non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere sempre eccepita dal debitore. Ciò vuol dire che il creditore, pur in presenza di un credito prescritto, ha sempre la possibilità di chiedere il proprio credito ed il debitore ha il diritto di aderire alla richiesta, evidentemente pagando quanto da lui dovuto, oppure far valere l’avvenuta prescrizione del proprio debito.
È chiaro che tutti i citati principi, provengono essenzialmente dal codice civile (principalmente l’articolo 2946 e seguenti), oltre che dalla singole leggi d’imposta, e sono necessari al fine di assicurare la certezza dei diritti e dei rapporti tra soggetto debitore (contribuente) e soggetto creditore (ufficio fiscale).
In generale, comunque, può dirsi che, mentre la prescrizione comporta l’estinzione del diritto già acquisito, la decadenza impedisce l’acquisto del diritto e quindi l’esercizio del potere normalmente attribuito dalla legge.
Detto questo, e passando direttamente agli istituti della decadenza e della prescrizione in materia fiscale e, segnatamente, per i tributi erariali, senza avere la pretesa di essere esaustivi in considerazione delle numerose norme esistenti per i diversi tributi vigenti, possiamo dire che la decadenza degli avvisi di accertamento in materia di imposte dirette (art. 43 Dpr 600/73) e di Iva (art. 57 Dpr. 633/72) si consuma allo scadere del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (sei anni in caso di omissione di dichiarazione). Trascorsi tali termini, la notifica dell’accertamento è sicuramente impugnabile.
“Acquisito il diritto” l’Amministrazione finanziaria deve farlo valere nei termini di prescrizione che, anche alla luce della copiosa giurisprudenza esistente, sono quelli di cui al 1^ comma dell’articolo 2946 del Codice Civile secondo il quale “Salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni”.
Evidentemente, qualunque atto di messa in mora è idoneo a produrre un effetto interruttivo.
È opportuno ricordare, a questo punto, che, a norma del successivo articolo 2948 dello stesso Codice, si prescrivono in cinque anni (così detta “prescrizione breve”), tra l’altro, “ in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi.”.
È pure opportuno ricordare che, ai sensi dell’articolo 2953 del Codice Civile, quando la legge prevede per un diritto un termine di prescrizione più breve di quello, ordinario (decennale), se rispetto a quel diritto interviene una sentenza di condanna passata in giudicato, il termine di prescrizione diventa di dieci anni.
Detto principio trova applicazione – come chiarito dalle Sezioni Unite della Cassazione – con riguardo a tutti gli atti di riscossione, comunque denominati, mediante ruolo, riguardanti, quindi, anche crediti previdenziali, crediti relativi a entrate tributarie ed extratributarie, dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri enti locali, nonché delle sanzioni per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via.
È proprio la differenza tra prescrizione ordinaria “lunga” e prescrizione “breve” che caratterizza alcuni tributi rendendo talvolta difficile per i contribuenti conoscere con esattezza i loro diritti.
Non esistono perplessità sulla decadenza (cinque anni) e sulla prescrizione (dieci anni) dei tributi erariali (o quasi tutti).
La Corte di Cassazione, infatti, ha sempre sostenuto che le obbligazioni per tributi erariali non possono qualificarsi come prestazioni periodiche, in quanto il loro ammontare deriva, anno per anno, da elementi riferibili a ciascun anno d’imposta in relazione alla sussistenza dei presupposti impositivi.
Le perplessità, invece, esistono sulla decadenza e sulla prescrizione dei tributi locali.
I tributi locali, come l’Imu e la Tari, sono soggetti al termine di decadenza di cinque anni.
Anche il termine di prescrizione, al contrario di tributi erariali, è di cinque anni (evidentemente a partire dall’ultimo atto interruttivo).
Con specifico riguardo a questo settore, si ricorda che con la legge n. 296 del 2006 (Finanziaria del 2007), in particolare, con i commi 161 e 163 dell’art. 1, il legislatore ha previsto per i suddetti tributi (istituendo un unico atto con valore di accertamento, di titolo esecutivo e di precetto) un termine unitario di decadenza, sia per l’esercizio dell’attività di accertamento, sia per la notifica del primo atto di riscossione. Il comma 161 dell’articolo 1 della legge 296/2006 prevede infatti che “Gli avvisi di accertamento in rettifica e d’ufficio devono essere notificati, a pena decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o il versamento sono stati o avrebbero dovuto essere effettuati”.
La Cassazione, poi, con sentenza n. 4283 del 2010, ha ricondotto tali termini tra quelli delle prestazioni periodiche collegate ad una causa debendi continuativa, per le quali opera il termine di prescrizione breve quinquennale.
Sicché, in base a quanto allora previsto dalla Cassazione, il termine di decadenza per la notifica dell’atto di rettifica della dichiarazione o di accertamento e la contestazione o irrogazioni delle relative sanzioni (in materia di tributi locali) viene indicato nel 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o il versamento sono stati o avrebbero dovuto essere effettuati.
In caso di riscossione coattiva dei tributi locali di cui si parla, il relativo titolo esecutivo, così come previsto dal combinato disposto degli articoli 1, commi 738 e 780 della Legge di bilancio 2020 (160/2019) e 1 comma 163 della legge 296 del 2006, che hanno modificato la disciplina dell’Imu, deve essere notificato al contribuente, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo.
In materia di sanzioni tributarie per tributi locali, il termine è unico, ossia di cinque anni, sia per la decadenza che per la prescrizione, così come previsto dall’articolo 20 del decreto legislativo 472/97.
Innanzitutto la necessità, magari nel corso della prossima riforma tributaria, di una maggiore chiarezza, anche nelle definizioni corrette, in materia di decadenza e prescrizione di tributi locali.
Poi un’altra questione che, purtroppo, da tempo continua a pesare, verosimilmente senza motivo, sui contribuenti il cui debito risulta già prescritto. La legge, infatti, non prevede una forma sacramentale ai fine di eccepire la prescrizione. Eppure alcuni uffici, specialmente gli agenti della riscossione, pretendono, oltre alla (giusta) eccezione di prescrizione (perché non rilevabile d’ufficio), anche che tale adempimento venga fatto nel corso di un giudizio e che la prescrizione venga stabilita dal giudice.
Una interpretazione che forse serve ad allontanare, da colui (ufficio pubblico) che ha determinato la prescrizione, il rischio che venga chiamato a risponderne dinanzi alla Corte dei Conti. Ma se la prescrizione è assolutamente certa ed incontestabile, magari anche a parere dell’ufficio creditore, l’obbligare ad adire il Giudice (anche quello tributario) non fa altro che aumentare il danno già causato all’erario, addirittura non escludendo l’ipotesi di lite temeraria con le relative conseguenze.