CATANIA – Katya Maugeri, scrittrice e giornalista, torna a parlare della vita nelle carceri con il suo nuovo libro “Tutte le cose che ho perso. Storie di donne dietro le sbarre”, presentato per la prima volta nei giorni scorsi a Catania, nei locali della casa editrice Villaggio Maori. A partecipare all’evento – oltre all’autrice – anche il direttore dell’Istituto penale per minorenni (Ipm) di Caltanissetta Girolamo Monaco e il sostituto procuratore del Tribunale di Catania Anna Trinchillo. A moderare l’incontro, intervallato da brevi letture del testo da parte di Patrizia Auteri, il giornalista e sociologo Mattia Gangi. Dopo “Liberaci dai nostri mali. Inchiesta nelle carceri italiane: dal reato al cambiamento” del 2019, Katya Maugeri è entrata nel carcere di Rebibbia a Roma per raccontare le storie di quel 4% dei detenuti complessivi, ovvero delle donne che hanno sbagliato. “Alla dicotomia della donna-angelo e della donna-demone, che si realizza con la detenzione di chi ha commesso un reato, Katya ha risposto con il dissequestro della donna stessa – ha spiegato Mattia Gangi -. Questo non per assolvere chi abbia commesso un errore, ma per narrarne la storia personale”.
“Il carcere è una realtà che non pensa, che non ha parole e può esistere anche senza detenuti. Le carceri hanno tutte lo stesso odore di cibo scadente e scotto misto a quello del detersivo utilizzato fino alla paranoia. In carcere non c’è mai silenzio, l’affettività è assente e la luce è sempre accesa. Lì il corpo si riduce, come Katya scrive, a un ‘sacco di pelle’ che porta i segni dei tatuaggi fatti con le penne Bic e gli aghi ricavati dalla molla degli accendini – ha raccontato Girolamo Monaco -. Ma la realtà dei minorenni e delle donne in carcere è così piccola da poter far pensare un carcere possibile che si riappropri della sua funzione, ovvero del cambiamento, in termine riparativo e non rieducativo, perché il reato è uno ‘strappo’. Una delle esperienze più significative della mia carriera? Una volta un detenuto analfabeta ha cominciato a scrivere e, per errore, ha scritto ‘libro’ anziché ‘libero’. Proprio grazie a quest’errore ha avuto modo di comprendere il nesso tra conoscenza e libertà. La narrazione per i detenuti è terapia ed evasione, nonché possibilità di riparazione che si compie quando il carcerato riesce a pronunciare il nome della sua vittima”.
Ne è convinta anche Anna Tinchillo: “Anche io sono entrata nel carcere di Rebibbia. E’ successo durante il mio tirocinio, quando, dopo essere diventata mamma da poco, dovevo incontrare una donna rom che si trovava in carcere da una settimana per aver fatto prostituire il figlio – ha fatto sapere il sostituto procuratore del Tribunale di Catania -. Ero pronta a vedere con i miei occhi un ‘orribile mostro’, ma davanti a me ho trovato una donna spaesata che si trovava in un luogo ostile senza conoscerne nemmeno la lingua, che non aveva compreso la gravità del fatto commesso in quanto abituata sin da piccola alla prostituzione e all’illegalità. Io oggi sono chiamata a giudicare se un soggetto abbia o meno commesso un reato, ma bisogna tenere conto delle differenze tra chi ha avuto opportunità di scelta e chi no, tra il modo di sentire delle donne e quello degli uomini. Per esempio, ho avuto modo di vedere come certi bambini si trovino in carcere solo perché la madre abbia commesso un reato; nascono, crescono lì e, una volta usciti, provano grande paura nei confronti del resto del mondo”.
“Tutte le cose che ho perso. Storie di donne dietro le sbarre” vuole essere pure uno strumento di denuncia della scarsa capacità dello Stato di farsi carico dei problemi dei suoi cittadini. Ciò che legittima l’esistenza dello Stato, infatti, dovrebbe essere la salvaguardia della salute e della libertà personale; ma, soprattutto nel caso dei soggetti con malattie psichiatriche e/o dei soggetti che perdono la loro libertà in conseguenza a un reato, l’autorità statale mostra la sua grande debolezza.
“Il 2022 è ricordato come l’anno record dei suicidi in carcere. E nei primi sei mesi del 2023 già 25 persone si sono tolte la vita in cella perché stavano male mentalmente – ha aggiunto Katya Maugeri -. Lo fanno normalmente a inizio o a fine detenzione, il ché potrebbe apparire come un controsenso. Nel libro affronto anche questo tema, attraverso la testimonianza di una donna che ha trovato il biglietto d’addio della compagna di cella, suicidatasi il giorno prima di uscire dal carcere. Era una mamma giovane e bella, ma aveva grandi problemi di tossicodipendenza. La dipendenza dalla droga, così come le sue cause più profonde, in carcere non viene curata. I detenuti tossicodipendenti vengono soltanto costretti all’astinenza, con tutte le sue conseguenze fisiche e psicologiche che, a volte, non riescono più a superare”. Perché per cambiare la propria vita, bisogna prima averne una. E per averne una, bisogna ricordarsela o farsela raccontare.