Stiamo per raggiungere i cinque mesi di conflitto in Ucraina e la guerra è rientrata in Europa facendo ripiombare tutti noi nelle dinamiche dello scorso secolo in cui si sono consumate ben due guerre mondiali.
Ma il ‘900 è anche il secolo in cui nasce l’Europa per come la conosciamo, costruita sulla pace ritrovata nel 1945 e segnata da una cultura di pace che sembrava essere capace di scongiurare per sempre la guerra nel vecchio Continente. Era una visione forte, un progetto credibile per tutti che ha fatto nascere e vivere intere generazioni in un clima di pace, convinte che la guerra fosse un fatto lontano da leggere esclusivamente sui media.
Dopo la guerra mondiale, infatti, il secondo Novecento trova stabilità e pace in Europa grazie a movimenti e politiche a sostegno: penso ai movimenti pacifisti, a Ghandi e alla cultura della non violenza, agli sforzi diplomatici tesi a superare le divisioni sino alla caduta del muro di Berlino e la successiva Perestoika, al dialogo tra le religioni promosso da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986.
Ma cosa è rimasto di questa tensione e cultura della pace? Probabilmente sono tutte domande che avremmo dovuto porci prima che le tensioni nell’Est dell’Europa degenerassero in una guerra.
Sembra tardi, il conflitto bellico è in atto e vediamo i riflessi della guerra: profughi, violenza diffusa, orfani, crisi del grano e delle energie e tanto altro ancora. Ma a mio avviso una delle cose più gravi accadute è l’interruzione di quella catena di educazione alla pace che ha segnato intere generazioni: di padre in figlio tutti educati, tutti convinti che la guerra non sarebbe rientrata mai più nel nostro Continente.
Temo infatti che la facilità con la quale si parla di invio di armi, che prima dovevano essere di sola difesa ma che oggi sono diventati missili e armi di offesa, sia preoccupante. Mi sembra che il pacifismo del Novecento stia facendo fatica a caratterizzare questo inizio di terzo millennio anzi, sembra quasi oggi che affermare “sono per la pace” sia roba da sciocchi idealisti.
Dobbiamo recuperare quell’atteggiamento culturale, spirituale e anche politico: “pace” e “invio di armi” non possono convivere nella stessa frase. Bisogna riprendere a vivere, educare e tendere verso una pace che va testimoniata in tutti i modi possibili. Innanzitutto con la solidarietà, accogliendo i profughi ucraini (senza mai dimenticare l’Africa, la Siria o gli altri luoghi dove tanti sono costretti a fuggire), continuando a inviare farmaci e aiuti di vario genere in Ucraina e nei Paesi limitrofi impegnati nella primissima accoglienza, ma soprattutto continua a pregare per la Pace.
La preghiera è anche una forma di resistenza al male, una risposta concreta per non lasciar vincere la tentazione dell’indifferenza o alla frustrazione dell’impotenza. Non dobbiamo avere paura di imitare i tanti ucraini, le tante vedove, gli orfani, gli sfollati che oggi, difronte l’abisso del male e spaventati dal demone della guerra, continuano a chiedere a Dio quella pace che gli uomini non riescono a trovare.