Mancano ormai due settimane all’Election Day del 5 novembre e sull’esito delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti regna la più totale incertezza. In questo intenso anno elettorale siamo stati testimoni di diversi momenti cruciali che hanno reso la corsa alla Casa Bianca diversa rispetto alle precedenti. Abbiamo assistito alle vicende giudiziarie del candidato repubblicano Donald Trump, tra cui spicca il maxi processo di New York, che ha visto il primo verdetto di colpevolezza ai danni di un ex presidente. Una sentenza che però non ha indebolito la popolarità del magnate, che rafforzava il suo consenso ogni volta che Biden commetteva degli errori imperdonabili. Il capolinea dell’attuale presidente è stato quando durante il vertice Nato a Washington ha presentato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky come “presidente Putin”.
Nelle successive settimane le pressioni degli stessi democratici nei confronti di Biden si sono intensificate sempre di più, fino a quando il presidente è stato costretto ad annunciare il suo ritiro dalla corsa per la rielezione, dando il suo endorsement a Kamala Harris. E così mentre Trump nella convention repubblicana veniva accolto come un eroe dopo essere sopravvissuto all’attentato di Butler in Pennsylvania, l’attuale vicepresidente ha portato nuova linfa tra i democratici, staccando inizialmente Trump nei sondaggi.
Terminato lo slancio iniziale, dovuto alla novità della discesa in campo, Kamala Harris deve fare i conti con dei margini di vantaggio nei sondaggi che adesso risultano ridimensionati, in un contesto in cui regna l’equilibrio e l’angoscia per i conflitti in Medio Oriente e in Ucraina, accompagnata dal timore di ulteriori assalti, così come avvenuto a Capitol Hill lo scorso 6 gennaio 2021. L’unica certezza è che l’esito del voto dipenderà ancora una volta dai sette Stati in bilico: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Nevada, Arizona, North Carolina e Georgia.
Nonostante l’uccisione del leader di Hamas, Yahya Sinwar, il conflitto in Medio Oriente prosegue incontrastato, con il premier israeliano Benjamin Netanyahu che non ha alcun interesse nel far finire la guerra. Il clima di tensione nei campi di battaglia ha fatto eco anche oltreoceano.
Il picco massimo in questo senso si è avuto quando Netanyahu è stato invitato per fare un discorso al Congresso degli Stati Uniti a Washington. Quel giorno si è tenuta la più grande manifestazione pro Palestina dall’inizio della guerra, un raduno senza precedenti che ha visto i manifestanti radere letteralmente al suolo la capitale degli Stati Uniti, dando vita a scontri accesi con la polizia e arresti.
Intanto Trump in quello che è stato il suo ultimo comizio in Pennsylvania ha superato i limiti della volgarità, definendo Harris “una vicepresidente di merda”. Una frase che secondo la stampa americana alimenta le ipotesi di instabilità mentale del tycoon. In un quadro così articolato risulta davvero difficile sapere che cosa accadrà nei prossimi 14 giorni. Non ci sarà spazio per altri dibattiti e così dopo un anno caratterizzato da tensioni, raduni, primarie e convention il momento della verità è ormai alle porte.
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