“A Milano i poveri si vedono: cappelli in mano agli angoli delle strade, code davanti alle mense caritatevoli, sempre più spesso ti chiedono direttamente soldi. E non si tratta solo di immigrati. Secondo l’Istat, una famiglia con un figlio a carico è considerata quasi povera se ha un reddito medio netto mensile inferiore ai 1.400 euro. Di fatto la piccola borghesia è quasi scomparsa dalla metropoli lombarda, la media lascia la città per non stringere la cinghia, i ricchi stanno invece sempre bene. Sono i cosiddetti “poteri forti”, quelli che Luca Beltrami Gadola definisce nella sua newsletter on line, “Arcipelago Milano”, i nostri “oligarchi”.
Così il sempre bravissimo “cronista” Alberto Mazzuca ci racconta (Il Giorno 23 febbraio 2023) Milano, come è realmente, fuori dalla Scala e da Palazzo Marino. A questo quadretto della capitale economica d’Italia possiamo aggiungere altri dati preoccupanti come l’inflazione italiana ai vertici europei, i dati sugli sfratti in continuo aumento “una bomba sociale da disinnescare” (Avvenire, 23 febbraio 2023); i dati sull’andamento degli italiani all’estero (verso i 6 milioni quelli iscritti all’Aire) e soprattutto l’analisi sviluppata sugli stessi dalla sociologa Delfina Licata, responsabile del dossier annuale “Italiani nel mondo” (Il Sole 24 Ore 6 febbraio: “Sono anni che da questi dati emerge la fuga dei giovani come un campanello d’allarme per una società in piena crisi demografica. Di solito partono subito dopo aver ottenuto un titolo di studio, diploma o laurea, in cerca di un percorso professionalizzante da definire oltre confine. Ma con la pandemia abbiamo visto aumentare il trasferimento all’estero di molti con un’identità già ben definita”.
Tale migrazione è, al Sud, “devastante” ma, negli ultimi anni, le nuove iscrizioni all’Aire provengono soprattutto dal Nord, da alcune zone di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna); i dati sull’occupazione giovanile e femminile (in diminuzione quest’ultima anche in Lombardia); i dati di un’indagine da Anaao Assomed (associazione di categoria dei camici bianchi che evidenzia che il 56 percento dei medici è insoddisfatto del proprio lavoro; i dati dell’industria edilizia che, stando alla dichiarazione delle associazioni costruttori, segnerebbe il rischio di 25.000 fallimenti se si toglie il folle superbonus messo giustamente in discussione dall’attuale governo (ma che diavolo di industria è quella che rischia un numero di fallimenti epocale se si toglie questo sostegno pubblico?), e potrei continuare con questi dati così preoccupanti. Si tratta di dati che, purtroppo, non sono compensati dai dati brillanti dell’industria manifatturiera, ed in particolare delle esportazioni che, una volta di più, testimoniano la buona salute della parte migliore dell’Italia produttiva.
Ma non è sufficiente. Né mancano altri settori della nostra comunità dove si lavora tanto e bene, raggiungendo risultati confortanti. Penso al terzo settore con tutta la componente del volontariato efficiente e bene organizzato, al turismo, ai segnali di punta dell’agroalimentare. Ma se così è, se l’Italia produttiva regge, perché da qualche tempo sono tormentato dall’immagine di un’Italia che, per certi versi, sembra un paese dominato dalla cultura di un paese dei balocchi, dalla quale è urgente uscire?