Editoriale

Verità sull’autonomia “meritocratica”

Contrariamente a quanto fanno molti informatori, fra cui i giornalisti, ho letto con molta attenzione gli undici articoli della Legge n.86 del 26 giugno 2024, riguardante l’Autonomia differenziata delle Regioni a Statuto ordinario e a Statuto speciale, come prevede l’articolo 11 della stessa legge.

Questa legge è figlia della Legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, allora approvata dai Democratici e dalla loro coalizione, quindi, teoricamente, le due parti politiche che governano il nostro Paese nella cosiddetta Seconda Repubblica (cominciata nel 1994) hanno trovato convergenza. Cosicché tale legge non dovrebbe avere avversari in quanto prima e ora proviene dalla volontà dei due raggruppamenti politici, quello indicato a sinistra e quello dei conservatori a destra.

È per questa sua forma e sostanza che non ci spieghiamo l’avversione di una parte contro l’altra e con tutto quello che ne è conseguito e che ne conseguirà. Ma questo è un discorso che riguarda le stranezze del nostro sistema partitocratico.

Dobbiamo ricordare ancora una volta che i partiti governanti la politica italiana sono delle semplici associazioni privatistiche, non hanno forza di legge, né provengono da una legge perché gli stessi in questi settantotto anni di Repubblica si sono sempre rifiutati di attuare l’articolo 49 della Costituzione, il quale stabilisce che i partiti devono avere forma legale e perciò stesso controllabili. Questo è un altro discorso, che però influenza la situazione abnorme e assurda che si sta verificando in ordine alla citata Legge 86 da noi prima evocata.
Tuttavia, è nostro costume fare chiarezza in base ai fatti e non alle chiacchiere che vogliono influenzare i/le cittadini/e, soprattutto quelli/e meno colti/e.

Cominciamo col dire che l’articolo 118 della nostra Costituzione prevede il principio di “sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza” delle procedure, che abbisognano anche di responsabilità e trasparenza, il che significa: faccia la Provincia quello che non può fare il Comune; faccia la Regione quello che non può fare la Provincia; faccia lo Stato quello che non può fare la Regione. Quindi, la testa delle attività pubbliche è il Comune.

Vi sono ventitre materie che le Regioni possono esercitare. Di esse, però, quattordici – elencate nell’articolo 3 della citata legge – abbisognano dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni). Siccome è prevista una procedura piuttosto complessa per determinare tali Lep, si presume che intanto tutte le Regioni e le Province autonome che lo volessero potrebbero cominciare a richiedere su nove materie.
La Legge in esame è garantista di tutte le prerogative, perché prevede che su quasi tutti gli atti vi siano i pareri dell’Anci (Associazione nazionale dei Comuni italiani), dell’Upi (Unione Province italiane), della Conferenza unificata delle Regioni; prevede anche che un accordo fra il Governo e la Regione richiedente, corredata dei pareri prima elencati, vada alle Camere, le quali hanno la possibilità di emendare l’accordo o di approvarlo così com’è.
Inoltre, il ministro degli Affari regionali e delle Autonomie trasmette una relazione annuale alle Camere (comma 6, articolo 3).

Inutile e sterile è la polemica riguardante l’attribuzione delle risorse, di cui all’articolo 5. Queste risorse non possono essere superiori a quelle che lo Stato spende per ciascuna materia. Quindi, trasferire le competenze non costituisce oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, cioè avviene a costo zero.
Tradotto, il principio significa che la produzione dei servizi in capo allo Stato centrale, dopo l’accordo, passa alle Regioni senza aggravi di spesa, per cui risultano incomprensibili le osservazioni secondo cui questi trasferimenti di funzioni arricchirebbero di più le regioni del Nord rispetto a quelle del Sud. Infatti, se gli amministratori regionali saranno più capaci di quelli statali, produrranno maggiori e migliori servizi a parità di spesa.
Vi è poi una Commissione paritetica “che provvede altresì annualmente alla ricognizione dell’allineamento fra i fabbisogni di spesa già definiti e l’andamento del gettito dei tributi compartecipati” (articolo 8).
Ciò premesso, per piacere, non accusateci di parteggiare per i conservatori, ma accusateci di parteggiare per la verità.