L’autobomba che uccise Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta esplose alle 16.58 e venti secondi del 19 luglio 1992, all’altezza del numero 21 di via D’Amelio a Palermo, dove abitava sua madre ma quell’odore di polvere da sparo e morte era nell’aria già da tempo. Paolo Borsellino, dal 4 agosto 1986 al 5 marzo 1992, fu procuratore della Repubblica a Marsala. La sua nomina superava il limite ordinariamente vigente del possesso di alcuni requisiti, principalmente relativi all’anzianità di servizio.
Critico fu Leonardo Sciascia, scrittore siciliano, il quale, in un articolo pubblicato su “Il Corriere della Sera” il 10 gennaio del 1987, si scagliò contro questa nomina invitando il lettore a prendere atto che “nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”, a conclusione di un’esposizione introdotta con due autocitazioni. Si tratta della nota polemica sui cosiddetti “professionisti dell’antimafia”.
Il nuovo procuratore capo è circondato da giudici molto giovani, quasi tutti sotto i trent’anni, freschi di concorso in magistratura. Diego Cavaliero viene da Napoli, Antonina Sabatino e Antonio Ingroia da Palermo, Massimo Russo è di Mazara, mentre Alessandra Camassa e Giuseppe Salvo sono marsalesi. Ma fu proprio lì che iniziarono le minacce di morte mafiose nei confronti di Paolo Borsellino quando, nel 1991, Cosa nostra volle organizzare un attentato proprio a Marsala. Per quell’attentato, che non andò in porto, morirono due mafiosi perché si opposero all’eliminazione di Borsellino a Marsala, i fratelli D’Amico capi della famiglia locale.
Il Csm aveva deliberato il trasferimento di Giovanni Falcone al Ministero della giustizia il 27 febbraio 1991 e, quando Paolo Borsellino tornò a Palermo, divenne un “uomo solo”. Come disse Giovanni Falcone, “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”.
La solitudine di Paolo Borsellino è dimostrata anche da quanto testimoniato al processo nei confronti del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu con l’accusa di favoreggiamento nei confronti del boss Bernardo Provenzano, dal quale uscirono assolti, da Massimo Russo e Alessandra Camassa che, in quell’occasione, raccontarono che “Io e il collega Massimo Russo restammo sorpresi, imbarazzati – ha raccontato Camassa -. Eravamo andati a trovarlo per parlare di alcune indagini, ma all’improvviso Borsellino cambiò discorso. Dopo quello sfogo non abbiamo avuto la forza di chiedergli nulla. Ho avuto la sensazione che Paolo avesse ricevuto da poco una notizia che l’aveva sconvolto” e ancora “all’improvviso – ha raccontato Russo – disse che qualcuno lo aveva tradito. Quasi per sdrammatizzare io gli chiesi come andava in Procura. E lui rispose che era un nido di vipere”.
Il 4 luglio 1992 si tenne, in procura a Marsala, il saluto di Paolo Borsellino. “Quella – ha raccontato in un’intervista rilasciata al QdS il dottor Giuseppe Salvo – fu l’ultima volta in cui lo vidi vivo. Quel 4 luglio era una persona quasi irriconoscibile. In solo quattro mesi lo trovai profondamente cambiato, turbato e amareggiato. L’onda lunga della strage di Capaci, mi disse, gli faceva temere di aver perso l’entusiasmo che lo caratterizzava. Rimasi molto colpito da quanto disse pubblicamente. Era un uomo alla ricerca di un’identità perduta, di un entusiasmo perduto. Al termine dell’incontro mi chiamò e, assieme alla moglie Agnese e al figlio Manfredi che lo accompagnavano, andammo in quello che era stato il suo ufficio. Parlammo e capii il suo disagio per l’ambiente della procura palermitana, per quanto lo circondava. Si era trovato proiettato in una realtà, disse, in cui faceva fatica a individuare da chi e da che cosa dovesse guardarsi prima, di chi si poteva fidare. Gli proponemmo un momento conviviale comune ma lui preferì rientrare a Palermo. Ci sentimmo telefonicamente il 17 luglio, al suo rientro a Palermo dall’interrogatorio di Mutulo a Roma. Fu un ultimo saluto”.
Anche dalle parole della moglie Agnese Piraino Leto, contenute in due verbali d’interrogatorio davanti ai pubblici ministeri di Caltanissetta, si evince il clima che Borsellino viveva in Procura “Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo”.
Mesi faticosi, quelli a Palermo, per Paolo Borsellino. Mesi in cui lavora alacremente e che sono drammaticamente sconvolti dalla strage di Capaci, quella in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Angelo Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. “Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale – racconta in una lettera Manfredi Borsellino in cui ricorda il padre -. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del ‘taglio’ fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi. Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa, bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta a un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola. Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo”.
Iniziarono così quei 57 giorni, giorni in cui Paolo Borsellino iniziò la sua corsa contro il tempo per capire le ragioni di quella strage, giorni in cui da “uomo solo” diventò “un morto che cammina”. “La mattina del 19 luglio – prosegue Manfredi Borsellino – complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno, compresa la domenica, alle 5 del mattino per ‘fottere’ il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore Pippo Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive. Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia ‘loffia’ domenicale tradendo un certo desiderio di ‘fare strada’ insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii e a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo, cosa che fece, a casa di una sua collega mentre Fiammetta, com’è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre”.
“Non era la prima estate – racconta ancora Manfredi Borsellino – che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare (…) ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti, mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dopo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci (…) Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel ‘suo’ mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare. Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel ‘tenere comizio’ come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto. Trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione”.
Si rigira nel letto e fuma una sigaretta dopo l’altra, Paolo Borsellino. Intorno alle ore 16 si alza, raccoglie i suoi effetti personali, compreso il costume da bagno e la sua agenda rossa, chiama i due capipattuglia delle autovetture di scorta, Traina e Catalano, per comunicargli che avrebbe dovuto recarsi in Via D’Amelio, poiché aveva un appuntamento con sua madre per accompagnarla dal cardiologo. Pochi minuti dopo il corteo di auto parte in direzione di Via D’Amelio: l’autovettura di “staffetta”, guidata da Vullo con a bordo Li Muli e Traina, quella condotta da Borsellino, e dall’altra autovettura di scorta all’interno della quale vi erano Catalano, Loi e Cosina. Dopo avere percorso l’autostrada dallo svincolo di Carini a quello di Via Belgio, le autovetture imboccarono via dei Nebrodi e via Autonomia Siciliana, sino ad arrivare in Via D’Amelio, dove Vullo si soffermò perché notò numerosi autoveicoli parcheggiati, circostanza che apparve assai singolare poiché in tale luogo abitava la madre del magistrato.
Prima che Vullo e Traina avessero il tempo di prendere qualsiasi decisione, Borsellino li sorpassò e posteggiò la propria autovettura al centro della carreggiata, davanti al cancelletto posto sul marciapiede dello stabile. Vullo fece scendere dalla propria autovettura gli altri membri della scorta e si spostò in corrispondenza della fine di Via D’Amelio, per impedire l’accesso di altre persone. Mentre Vullo stava posizionando l’autovettura al centro della carreggiata, venne investito da una corrente di vapore e polvere ad altissima temperatura all’interno dell’abitacolo. “Il giudice è sceso dalla macchina – ha raccontato Antonino Vullo, l’unico sopravvissuto alla strage, in un’intervista al QdS – e si è acceso una sigaretta. I ragazzi si sono messi a ventaglio intorno a lui per proteggerlo, come sempre. Sono entrati nel portone, poi… sono uscito dall’auto distrutta. Ho camminato e camminato. Ero disperato, vagavo. Gridavo. Ho sentito qualcosa sotto la scarpa. Mi sono chinato. Era un pezzo di piede”.
Un tappeto, sicuramente non pregiato, è quello usato per nascondere la verità. Sotto questo tappeto, già prima delle stragi del 1992, è stato scelto per nascondere la verità. Un tappeto, srotolato con perizia, dal quale spuntavano, artatamente, piccoli dettagli divenuti, nel tempo, prima elementi fondanti per le indagini e poi le menzogne di quello che la sentenza del Borsellino IV ha definito “il più grande depistaggio della storia repubblicana”.
Paolo Borsellino è stato vittima due volte. Perché dopo il suo strazio è stata calpestata la verità sulla sua morte, è stato oltraggiato, è un corpo oggi che non trova pace. E, trentadue anni dopo, mancano ancora tasselli importanti per ricostruire quel periodo buio e fare luce. “Si è fatto scempio della verità”, dice Lucia Borsellino, figlia di Paolo. E, si badi bene, non sta dicendo che non si sappia la verità ma sostiene una cosa diversa: che c’era, o forse c’è ancora, una verità nascosta da qualche parte che è stata maciullata, come il corpo di suo padre. “Non viviamo più, è del tutto impossibile l’elaborazione del lutto – ha dichiarato durante la sua audizione davanti alla Commissione nazionale antimafia l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Paolo Borsellino e marito della figlia Lucia -. Siamo costretti a cercare la verità. E’ una questione di dignità e d’impegno, la nostra vita, le nuove generazioni della famiglia anziché cercare di vivere la propria vita, sono costrette a impegnarsi nella ricerca della verità che non è semplice”.
Alla strage di via D’Amelio seguirono scelte investigative che si dimostrarono, con il tempo, del tutto sbagliate. Tra l’ottobre del 1994 e il 2008 sulla strage di Via d’Amelio si sono celebrati quattro processi e relativi gradi di giudizio: il Processo Borsellino 1, il Processo Borsellino bis, il Processo Borsellino ter – nel quale furono giudicati e condannati altri membri della cupola mafiosa, cioè del ristretto cerchio di boss che prendeva le decisioni: Bernardo Provenzano, Pippo Calò e Giovanni Brusca – e il Processo stralcio, scaturito da un rinvio in appello da parte della Cassazione ad altra corte d’Appello, quella di Catania. Quando nel 2008 l’ultimo è confermato in Cassazione, sembrava che il quadro delle responsabilità fosse composto, anche se molte domande rimasero senza risposta.
Nel 2009 le rivelazioni di Gaspare Spatuzza, mafioso che divenne collaboratore di giustizia, la cui attendibilità risultò ripetutamente riscontrata, svelarono che i processi Borsellino 1 e bis contenevano una “mina”, quella che si è poi scoperto essere il cardine del depistaggio, quel Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna, che si era autoaccusato del furto della 126 fatta esplodere a via d’Amelio e che non aveva detto la verità. Era stato Spatuzza a impossessarsi dell’automobile. Il processo di revisione, conclusosi a Catania, ha fatto cadere sette ergastoli comminati per effetto delle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e confermati in Cassazione nel 2008. Le persone che erano state chiamate a correo da Scarantino per il concorso in strage, e lui medesimo, scarcerate già nel 2011, sono tutte assolte nel 2017 e gli atti spediti a Caltanissetta, competente a indagare Scarantino per calunnia. Se il processo di revisione ha accertato la non sostenibilità delle accuse a carico delle persone per cui si era rivalutata la posizione, sono rimaste in ombra le modalità e le responsabilità con cui si era giunti alle collaborazioni inattendibili.
Tra le cause dell’eliminazione di Borsellino – perché la mafia non uccide per un unico motivo ma, ci insegna la storia, a seguito di diversi elementi e, spesso, uno di questi è “la goccia che fa traboccare il vaso” – e dell’accelerazione della sua esecuzione, nel tempo c’è stato un processo tenutosi a Palermo sulla c.d. “trattativa Stato-mafia”, che, però, il 27 aprile 2023, con la pronuncia della sesta sezione penale della Corte di Cassazione, ha assolto “per non aver commesso il fatto” gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, imputati, annullando, senza rinvio, la sentenza che pronunciò la Corte d’Appello di Palermo il 23 settembre 2021.
La tesi, definitivamente smentita, riteneva che alcuni organi dello Stato avessero trattato con la criminalità organizzata siciliana per mettere fine al periodo delle stragi della mafia all’inizio degli anni ‘90, garantendo in cambio un atteggiamento più morbido nei confronti della mafia stessa e dei boss in carcere. Ma, dopo dieci anni di processi, “papelli” inesistenti ancorché falsi, interpretazioni strumentali, colpe e responsabilità distribuite nei salotti televisivi, la Cassazione ha scagionato completamente i politici e gli ufficiali dei carabinieri coinvolti, con un risultato ben diverso da quanto ipotizzato, e immaginato, dai Pm che si occuparono del procedimento di primo grado. La Corte ha fatto anche un ulteriore passo, cambiando la formula dell’assoluzione ritenuta in Appello escludendo del tutto che il dialogo sia avvenuto.
Il “depistaggio”, presente come reato nel codice penale solo dal 2016, è stato oggetto di altri processi, alcuni ancora in corso. Se n’è occupato il Borsellino quater, che ha visto prescritto dal reato di calunnia Vincenzo Scarantino, e i processi tenutisi a Caltanissetta a carico di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei accusati di calunnia in concorso, tre poliziotti in servizio nel gruppo Falcone-Borsellino che all’epoca, coordinato dalla Procura di Caltanissetta, si occupava delle indagini e dunque della gestione dei collaboratori rivelatisi falsi. Al vertice di quel gruppo d’investigatori della Polizia di Stato c’era Arnaldo La Barbera, scomparso nel 2002, stimato da molti colleghi e magistrati, compresi quelli che nutrivano dubbi sull’attendibilità e caratura criminale di Vincenzo Scarantino.
Le evidenze e le domande emerse negli anni riguardo alla gestione sciagurata di quella collaborazione con la giustizia e che rendono plausibili molti dubbi, fanno inevitabilmente di Arnaldo La Barbera il convitato di pietra di molte sentenze, definitive e non, più o meno recenti. La sua morte prematura ha reso il giudizio sul suo operato di allora materia per gli storici, senza avergli dato il tempo in vita di vedersi contestare in giudizio accuse e di difendersene. Nelle motivazioni della sentenza del processo “Bo Mario + 2”, i giudici hanno offerto un affresco del contesto relativo alla strage di via d’Amelio che contiene significative novità. Non una parola è scritta dai giudici riguardo il teorema, oggi possiamo chiamarlo così, della “trattativa Stato-mafia”. E si è altresì esclusa la responsabilità di Cosa nostra nella sottrazione dell’agenda rossa di Borsellino “a meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a un’attività materiale di Cosa nostra”, scrivono i giudici.
Sempre nella medesima sentenza si legge che “nonostante La Barbera fosse un alto dirigente della Polizia di Stato (certamente ben più apicale degli odierni imputati), era anch’egli un anello intermedio della catena e sarebbe stato importante, ai fini che qui rilevano, poter risalire quella catena per poter apprendere appieno scopi e obiettivi dell’attività di cui si discute”. Ma, nel mese di luglio 2022, la Procura di Caltanissetta ha deciso di riaprire le indagini relative al dossier “mafia e appalti”, il fascicolo realizzato dal Ros su cui stavano lavorando prima di essere uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e che fu frettolosamente archiviato mentre Borsellino stava chiudendo gli occhi. Un dossier che nasce da una delega conferita nel 1989 dalla Procura di Palermo ai Ros dei Carabinieri che aveva come obiettivo principale quello di accertare “la sussistenza, l’entità e le modalità di condizionamenti mafiosi nel settore degli appalti pubblici nel territorio della provincia di Palermo”.
Dunque, per la prima volta, si metteva nero su bianco che c’erano dei “condizionamenti” di Cosa nostra negli appalti pubblici. Un triangolo formato da mafia, imprenditori e politica. Il 14 luglio del 1992, cinque giorni prima della strage di Via D’Amelio, si tenne un briefing, prima del periodo feriale, dei magistrati della Procura di Palermo e in quell’occasione Paolo Borsellino chiese notizie sull’inchiesta. Dalle successive dichiarazioni al Csm da parte dei magistrati presenti a quella riunione, emerse che nessuno disse a Borsellino che era già stata firmata la proposta dell’archiviazione. I magistrati che coordinano l’inchiesta, tra cui Claudia Pasciuti e Pasquale Pacifico, guidati dal procuratore Salvatore De Luca, hanno sentito alcun testi. Tra questi compare il nome del colonnello Giuseppe De Donno che allora, da giovane capitano, condusse l’inchiesta con il suo diretto superiore, il colonnello Mario Mori. Lo scorso 3 luglio la Procura di Caltanissetta ha indagato l’ex pm Gioacchino Natoli, che fece parte dello storico pool palermitano.
Avrebbe avviato “un’indagine apparente”, disponendo una “attività d’intercettazione telefonica per un brevissimo lasso temporale”, come spiegano i magistrati, in concorso tra gli altri con l’allora procuratore Pietro Giammanco e l’ex capitano della guardia di finanza Stefano Screpanti, anche lui indagato, dopo aver ricevuto gli atti da Massa Carrara, a firma di Augusto Lama, l’allora sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Massa Carrara che intuì il legame tra la mafia siciliana e il gruppo Ferruzzi, all’epoca proprietario della Sam-Imeg, due società che controllavano il 65% delle cave e della lavorazione del marmo di Carrara. L’indagine fu archiviata a Palermo il primo giugno del 1992, subito dopo la strage di Capaci e le relative intercettazioni furono smagnetizzate. L’accusa mossa nei confronti di Natoli è di averlo fatto per agevolare imprenditori come Francesco Bonura, Antonino Buscemi e Raoul Gardini. Per i pm nisseni, Natoli avrebbe insabbiato l’indagine della Procura di Massa Carrara, poi confluita nel procedimento sulle gare pubbliche gestite dalla criminalità organizzata, per favorire l’imprenditore palermitano Francesco Bonura. Ma avrebbe aiutato anche altri imprenditori Antonino Buscemi, Ernesto Di Fresco, Raoul Gardini, morto suicida, Lorenzo Panzavolta e Giovanni Bini, gli ultimi tre al vertice del Gruppo Ferruzzi, ad eludere le indagini.
Tra le contestazioni all’ex presidente della Corte d’Appello di Palermo, c’è anche l’ipotesi secondo cui avrebbe disposto, “d’intesa con l’ufficiale della guardia di finanza che provvedeva in tal senso, che non fossero trascritte conversazioni particolarmente rilevanti, da considerarsi vere e proprie autonome notizie di reato, dalle quali emergeva la ‘messa a disposizione’ di Di Fresco in favore di Bonura, nonché una concreta ipotesi di ‘aggiustamento’, mediante interessamento di Di Fresco stesso, nel processo pendente innanzi alla Corte d’Assise d’Appello di Palermo, sempre a carico di Bonura per un duplice omicidio”. Nel corso dell’interrogatorio, avvenuto lo scorso 5 luglio Natoli “si è avvalso, allo stato, della facoltà di non rispondere, riservandosi di chiedere alla Procura della Repubblica di Caltanissetta un successivo interrogatorio in cui fornire ogni utile chiarimento”, hanno comunicato i suoi legali.
Lo scorso 11 luglio, invece, si è tenuta l’udienza preliminare, dinanzi al gup del tribunale di Caltanissetta, per altri quattro poliziotti: Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi, Angelo Tedesco e Maurizio Zerilli. Sono accusati di depistaggio per aver dichiarato il falso deponendo come testi nel corso del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. “La cifra del narrato dibattimentale è rappresentata dai 121 ‘non ricordo’ pronunciati dal testimone nel corso dell’udienza che ha occupato la sua escussione”, scrive il collegio presieduto da Francesco D’Arrigo riferendosi a Zerilli. Più di 100 i “non ricordo” di Tedesco, 110 quelli di Di Ganci, mentre per Maniscaldi il tribunale di Caltanissetta ha scritto: “Non si è trincerato dietro ai non ricordo, ma si è spinto a riferire circostanze false”.
La strada per l’ottenimento della verità si rivela ancora una volta lunga, impervia e costellata di mezze verità. Vogliamo provare a fare il conto di quanti decenni, quanti processi-farsa, quanto denaro pubblico sprecato, quanti inquirenti fallimentari vanno messi insieme per proclamare il grande fallimento giudiziario del più grande depistaggio della Storia, quello che non è ancora finito e di cui non si sa se e quando finirà?