Willie Peyote, al secolo Guglielmo Bruno, è nato a Torino nel 1985. Quest’anno la sua musica è approdata al prestigioso palcoscenico del teatro Ariston in occasione della 71a edizione del festival di Sanremo.
Sesto posto nella classifica finale ma, soprattutto, vince il prestigiosissimo Premio della Critica Mia Martini.
Ottimi i risultati post festival: il suo brano “Mai dire mai (la locura)” è nella top10 ufficiali FIMI-GFK dei singoli più venduti e ascoltati in streaming in Italia – posizione n.8 e la più alta nuova entrata della classifica di questa settimana – ma anche tra i 10 brani più ascoltati, posizione n. 7, nella Top50 Italia di Spotify e anche tra i 10 brani sanremesi più programmati dalle radio italiane assumendo la posizione 31 nella classifica generale.
Inizierei dalla musica che ti girava attorno nell’adolescenza, prima che tu ne diventassi protagonista attivo.
Ho avuto la fortuna di vivere in una casa in cui la musica veniva ascoltata regolarmente. Mio padre è un musicista e grazie a lui ho ascoltato moltissimo gli U2 ma anche gli Steely Dan, Billy Joel, Bob Marley, Deep Purple fino a Pino Daniele, proprio perché a casa mia si ascoltava musica a 360°. Poi sono stato folgorato dal fenomeno rap prima ma ho ascoltato molto anche il cantautorato italiano sia di prima sia di seconda generazione.
Quando è importante la musica che hai assorbito in quegli anni nella tua attività di autore? Quanto ti ha influenzato?
È certo un patrimonio importante. In passato mi ha condizionato, in quella fase in cui mi sono formato mentalmente e personalmente come uomo e come artista. Ora non mi condiziona più, anche se è sempre presente perché tutto ciò che nel tempo mi è piaciuto ho cercato di farlo mio declinandolo secondo quello che sono. Oggi ho acquisito una forma personale che può riceve delle influenze che però mi condizionano fino ad un certo punto.
Bilancio del festival?
Ricevere il “Premio della Critica Mia Martini” è stato per me un grande onore, un importante riconoscimento, anche perché è uno dei premi più rappresentativi e prestigiosi per un autore. Dopo averlo ricevuto, ho guardato la lista di quelli che, prima di me, l’avevano vinto e leggere il mio nome in quell’elenco, anche se c’è il mio nome d’arte e ai miei genitori avrebbe fatto piacere vedere il mio nome vero, mi fa sentire da un lato onorato e dall’altro molto responsabilizzato, perché ad un riconoscimento come questo è necessario che si continui in un percorso di crescita e di qualità.
Al festival, nella serata dedicata alle cover hai deciso di presentare “Giudizi universali” che hai eseguito in coppia con l’autore, Samuele Bersani. Da dove arriva questa scelta?
L’ho scelta, innanzitutto, perché mi piace. Il mio approccio al festival è stato sicuramente inusuale. Ho subito pensato a un brano che raccontasse il mio legame con la musica d’autore italiana e che potesse aiutare a comprendere meglio le sfaccettature del mio percorso e, soprattutto, si tratta di una canzone che rappresenta un obiettivo autorale da raggiungere. Il brano di Samuele Bersani è un “brano perfetto”, scritto da una penna profonda, dotato di grande equilibrio e con un arrangiamento meraviglioso. Cantarla con Samuele sul palco più importante d’Italia è stata una sfida, perché volevo divertirmi ma anche mettermi alla prova e quella canzone rappresentava alla perfezione entrambi questi elementi.
Come hai vissuto l’esperienza di cantare la tua musica sul palco del teatro Ariston?
È stato molto bello e strano. Mi sono sentito come un bambino alle giostre. È stato bello suonare con l’orchestra. Quando guardavo il festival ho sempre pensato che sarebbe stato bello poter suonare con quell’orchestra, con tutti quei musicisti, con un bell’arrangiamento e nel momento in cui mi è successo mi sono divertito. Durante le performance sei più concentrato con il peso di chi sta guardando da casa, ma durante le prove ho potuto godermi in pieno la magia di quel momento. Anche quando ho provato la cover con Samuele ho vissuto alcuni momenti di grande emozione e, nella serata, di grande responsabilità per non voler rovinare quello che io ritengo un capolavoro.
I tuoi testi fanno un uso delle parole che denota, da parte tua, molto rispetto e maestria. Quando è nato il tuo amore per la parola e questo tuo modo di usarla per scrivere le canzoni?
Ho sempre avuto la sensazione di incontrare delle difficoltà nel farmi capire. Probabilmente questo mi ha fatto sviluppare una passione per le parole e trattarle bene mi ha dato la sensazione che il messaggio sarebbe stato meglio compreso. Ho un grande amore per le parole, per la posizione che assumono in una frase e questo mi porta a giocare con loro, com’è successo nel brano che ho presentato a Sanremo in cui ci sono molte parole inglesi che però s’incastrano in un mosaico che risulta essere fluido e coerente. Le parole sono belle, abbiamo la fortuna di parlare una lingua con tante sfumature. Mi piacciono le frasi ben dette, quando suonano bene. Nei film mi piacciono più i dialoghi che non le scene di azione.
Ad aprire la tua canzone c’è una citazione tratta dalla serie televisiva Boris che tutti conoscono come il monologo della Locura: “questa è l’Italia del futuro: un paese di musichette mentre fuori c’è la morte”.
Durante il lockdown ho rivisto le tre stagioni di Boris. La frase mi riecheggiava in testa perché, dieci anni dopo, aveva assunto un significato ancora più evocativo e più plastico dovuto al momento che stavamo e stiamo vivendo. Durante la stesura del testo, nell’intro, mi è venuta l’illuminazione. Ho provato a registrarla a casa e mi sono reso conto subito che era la “frase perfetta”. Si è ritrovata nel posto giusto come se quelle note e quel tempo la stessero aspettando. Ho ritenuto anche forte iniziare un brano a Sanremo, nel 2021, con quella frase.
Nei tuoi testi rimane alta la qualità di commentare criticamente la società che ti circonda, anche nel brano che hai presentato a Sanremo.
Non penso che questo possa mai cambiare. Posso imparare, migliorarmi ma questa mia caratteristica non cambierà. Si tratta però sempre di una critica che mi fa assumere delle responsabilità, non è un voler guardare dall’altro verso il basso ma, anzi, una critica che si rivolge anche a me. C’è una frase nel brano che ben sintetizza il mio pensiero: “ho visto di meglio, ho fatto di peggio”.
Definirti un rapper, forse oggi, è limitante. In te si percepiscono le caratteristiche del cantautore.
Cerco di non definirmi un cantautore perché in questo caso bisogna essere anche un bravo cantante e io non mi reputo tale. Forse ci sono troppi paletti alla definizione. Penso che il rap e il cantautorato abbiamo grandi elementi comuni, quali la capacità di raccontare criticamente dall’interno senza porsi sull’altare. Entrambi rappresentano un linguaggio che, nel mio caso, trova una sorta di sintesi.
Sei soddisfatto del risultato del tuo brano?
Direi proprio di sì. Sta andando molto bene in termini di ascolti, anche più di quanto io prevedessi. Non seguo la logica dei numeri ma devo ammettere che tutto ciò mi fa molto piacere.
Progetti per il tuo futuro?
Innanzitutto ho bisogno di metabolizzare tutto quello che è successo e provare a cercare di capire cosa ne può venire fuori, chi sono io e come posso mettere in musica questa esperienza perché questo è un passaggio importante per me e per la mia musica. Il progetto vero, che in questo momento è un sogno, è voler tornare a suonare appena sarà possibile. Nel momento della riapertura mi piacerebbe che ripensassimo ai luoghi che sottovalutiamo, quelli che oggi sono schematizzati all’interno del concetto di movida perché, in effetti, quelli sono i luoghi in cui si fa cultura che parte dal basso e, una volta, in questo paese la cultura era una cosa importante. Ho sempre cercato di essere coerente, in tutto il mio percorso e spero che questo sia quello che si potrà continuare a dire di me e della mia musica.
Per ora possiamo ascoltare la sua “Mai dire mai (la locura)” che sarà disponibile dal 26 marzo prossimo in una esclusiva versione 45 giri, un vinile 7” colorato che conterrà da una parte il brano sanremese e sul lato B il precedente inedito “La Depressione è un periodo dell’anno”, mai pubblicato su supporto fisico. Attendendo da lui nuova musica e nuove parole.
Roberto Greco