Inchiesta

23 maggio 1992: tra fatti, ricostruzioni e verità ancora da chiarire

PALERMO – Erano le 17,45 del 23 maggio 1992 quando il “Falcon 10” proveniente da Roma atterrò e Falcone salì sulla Fiat Croma bianca targata ROMA0F4837 mettendosi al posto di guida. Al suo fianco Francesca Morvillo, la moglie. L’autista Giuseppe Costanza occupò il sedile posteriori dell’auto. Non c’era il sole che normalmente a maggio c’è in Sicilia e il termometro segnava 23 gradi. Le tre auto con il lampeggiante blu acceso, le mani del giudice che poggiano sul volante, le chiavi nel cruscotto. Come in un film gli sguardi della scorta s’incrociano, un modo per parlare senza proferire una sola parola. I motori si accendono. Nella Croma marrone targata PAA06677, la prima blindata del corteo, ci sono Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, mentre in quella azzurra targata Pa889982, che lo chiude, Paolo Capuzza, Angelo Corbo e Gaspare Cervello. Poi il via verso Palermo.

Quando esce dall’aeroporto, il corteo imbocca l’autostrada A29 percorrendola lato monte. Falcone preme l’acceleratore fino a 120-130 chilometri orari. Non molto distanti da loro due mafiosi, Giovan Battista Ferrante e Salvatore Biondo, avvertono un altro sodale, Gioacchino La Barbera, che le blindate sono partite. Sono ventotto i chilometri che separano l’aeroporto dalla casa del giudice in via Notarbartolo a Palermo. Falcone vede, alla sua sinistra, per l’ultima volta il mare che lo accompagnerà fino all’ultimo istante della sua vita.

Lui non lo sa, ma in una stradina parallela all’autostrada c’è qualcuno che lo segue. È il boss di Passo di Rigano Michelangelo La Barbera, che resta in perenne contatto telefonico con Antonino Gioè e Giovanni Brusca, posizionati su una collinetta sopra Capaci da cui si vede perfettamente l’autostrada. Vanno nella stessa direzione, ma su strade diverse e non s’incontreranno mai.

La Fiat Croma marrone fa da apripista, avanza per poi frenare e attendere la Croma bianca del giudice mentre dietro, l’ultima blindata cerca di occupare tutte e tre le carreggiate dell’autostrada per impedire a qualsiasi altra autovettura di accostarsi. Il mafioso Giovanni Brusca è su una collinetta tra la sterpaglia, su quel bordo di terreno che consente di controllare persino gli aerei che atterrano. Dall’alto vede il corteo arrivare. Sono le 17, 56 minuti e 48 secondi e la Croma di Falcone è al chilometro 4,733 dell’autostrada all’altezza di Capaci. Un attimo dopo è l’inferno: 500 chili di esplosivo disintegrano quel tratto della A29. Non c’è più nulla. Rimane solo un cratere che apre un buco non soltanto sull’autostrada ma anche nella storia d’Italia.

La Fiat Croma marrone è investita in pieno dall’esplosione e balza oltre la carreggiata opposta, finendo in un giardino di ulivi. L’auto di Falcone si schianta contro il muro di detriti che si alza in aria. L’ultima auto è quasi sommersa da pezzi di cemento, ma gli agenti al suo interno riescono a sopravvivere. Un grande cratere, lungo 14,3 metri e largo poco più di 12. Il punto di maggiore profondità raggiungeva in alcuni tratti i 4 metri, determinando nel complesso una profondità che scendeva di oltre un metro rispetto al piano della campagna che stava intorno all’autostrada. “Sul posto si sono recati numerose auto di Polizia e Carabinieri, autombulanze ed elicotteri delle Forze dell’ordine per soccorrere i feriti” si legge nel lancio di Ansa delle 18,53 di quel 23 maggio 1995.

Ma dopo il grande tuono, il silenzio. Polvere, fumo, odore di esplosivo, sangue, brandelli di carne mescolati a materia inerme. E poi le lacrime di quanti sono arrivati per prestare soccorso… è morto Giovanni Falcone.

La rabbia contro quel giudice che continuava a “fare danni”

Oggi possiamo dirlo senza timore di smentita: l’attribuzione della strage è chiara, fu la mafia a far esplodere la bomba che uccise Giovanni Falcone. Così come è certo che furono i neofascisti a insanguinare l’Italia con gli attentati tra il 1969 e il 1974, da piazza Fontana a piazza della Loggia, e che furono le Brigate rosse a sequestrare e uccidere Aldo Moro. Ma, sempre oggi, sappiamo che restano da chiarire gli aspetti collaterali, cosa ruotò intorno a quelle responsabilità, che cosa rese possibile quelle stragi, quali complicità e connivenze si attivarono prima e quali coperture di salvaguardia scattarono successivamente.

Per la strage di Capaci, ma ancor più per quella di via D’Amelio che 57 giorni dopo uccise Paolo Borsellino insieme a cinque agenti di scorta, ma anche per l’assassinio di Aldo Moro e per le stragi degli anni Settanta.

Dopo trentadue anni, abbiamo una sentenza in più sull’organizzazione e l’esecuzione della strage, quella in cui la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta nell’agosto 2021 ha condannato all’ergastolo altri quattro mafiosi nel processo “Capaci bis”. Un verdetto che conferma la ricostruzione del pentito Gaspare Spatuzza che, dal 2008, ha aggiunto la sua versione a quella di altri quattro esecutori della strage. Quelle dichiarazioni di Spatuzza che hanno fornito ulteriori tasselli a un mosaico già delineato ma non ancora completo. I giudici, peraltro, hanno fatto proprie quelle dichiarazioni che fece Paolo Borsellino la sera del 25 giugno 1992: “Non voglio esprimere opinione circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque”.

Dire che non è solo mafia non significa assolutamente che la mafia non c’entri o che sarebbe stata poco più di una copertura di comodo, perché non è così. Giovanni Falcone, il nemico numero uno di Cosa nostra, è stato trucidato proprio da Cosa nostra, dalla fazione corleonese guidata da Totò Riina che, da tempo, aveva preso il controllo totale dell’organizzazione. Uccidendo Falcone, Riina ha compiuto un’azione punitiva e preventiva, pianificata già alla fine del 1991, alla vigilia di quella decisione della Cassazione sul maxi-processo che sancì la struttura unitaria e verticistica di Cosa nostra, distribuendo una pioggia di ergastoli e la sentenza del 30 gennaio 1992 diede il via alla sua reazione. Punitiva perché quel magistrato che aveva istruito il maxi-processo a Palermo e che a Roma aveva operato affinché non s’inabissasse nelle sabbie mobili della Cassazione, doveva chiudere il suo conto con la morte che fu, al tempo stesso, preventiva, perché quello stesso giudice continuava a “fare danni”, e proprio dal ministero della Giustizia stava ideando nuove norme e strutture per un più efficace contrasto alle cosche mafiose, come per esempio l’istituzione della Superprocura antimafia che voleva dirigere.

Meglio toglierlo di mezzo, fu la decisione ma le modalità, una strage di tipo terroristico e non la classica “ammazzatina”, i tempi scelti dell’esecuzione, quella stagione che annunciava il tramonto della cosiddetta Prima Repubblica, lasciano spazio a ulteriori moventi e interessi, sia interni sia esterni all’organizzazione mafiosa. Quella di Capaci fu una strage non a caso voluta e portata a termine con tecnica libanese e in Sicilia, nonostante la più agevole esecuzione a Roma ove Giovanni Falcone aveva di fatto una vigilanza più attenuata, perché occorreva ricorrere a una terrificante manifestazione di potenza.

“Non pare in dubbio – hanno scritto i giudici della Corte d’Assise d’Appello – che dietro la strage di Capaci sia configurabile anche un movente politico, identificabile nella ricerca da parte di Cosa nostra di nuovi referenti politici, oltre che una contestuale finalità di destabilizzazione intesa a esercitare una pressione sulla compagine politica e governativa che aveva fino a quel momento attuato una rilevante politica di contrasto all’espansione del crimine organizzato mafioso”.

La Corte ha ritenuto quindi possibile che “la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi nella riunione degli auguri di fine anno 1991, abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra”, come dimostrato dalle “tastatine di polso” di cui hanno parlato diversi pentiti, effettuate dallo stesso Riina nel mondo politico e quello dell’imprenditoria e della finanza, prima di deliberare la strage. Non tanto per avere un beneplacito ma per valutare le reazioni di chi avrebbe potuto trarre beneficio dalla morte di Falcone che già aveva avvertito tutti delle sue intuizioni e convinzioni quando affermò che “la mafia è entrata in Borsa” e che, non a caso, aveva chiesto di realizzare quel “Dossier mafia-appalti”, prodromico a una “Tangentopoli” siciliana che avrebbe scosso e modificato gli equilibri di tutta la nazione. In realtà nulla che possa “mettere in ombra la paternità della terribile decisione di morte” assunta e portata a termine dalla mafia, ma sufficienti per immaginare ulteriori connivenze e correità anche se non necessariamente penali.

In Sicilia, scrisse Falcone nelle ultime righe del suo libro “Cose di Cosa Nostra”, “si muore generalmente perché si è soli, o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno”. È successo quel 23 maggio a Capaci, ma sarebbe potuto accadere nel 1989 all’Addaura, quando l’attentato fallì, ma, grazie alle calunnie contenute nelle lettere anonime del Corvo, Falcone era divenuto un bersaglio messo in un angolo, messo all’indice all’interno delle istituzioni, da una parte della politica e di quella magistratura di cui fu un rappresentante molto più sopportato che supportato. Ma era il momento giusto anche il 1992, quando il giudice antimafia più famoso al mondo proprio in Italia era osteggiato, vilipeso e malvisto anche da chi in passato lo aveva sostenuto, o aveva approfittato delle sue indagini sui rapporti tra mafia e politica per guadagnare spazi e visibilità.

Fu accusato di essersi avvicinato troppo alla politica con il suo incarico ministeriale, di aver abbandonato la trincea della lotta alla mafia e di essere un magistrato corroso dalla voglia di protagonismo e di potere. Falcone aveva fatto le sue scelte, scelte che potevano essere discutibili purché discusse “in buona fede”, come ebbe a dire Paolo Borsellino dopo la sua morte. Ma al ministero della Giustizia, aggiunse sempre Borsellino, Falcone andò e “lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura” a Cosa Nostra e che proprio per questo Falcone andò incontro al suo destino, quello stesso destino riservato a Paolo Borsellino 57 giorni dopo, in attentato ben più denso di misteri, depistaggi e complicità occulte non ancora completamente svelate. E questo, trentadue anni dopo, non possiamo e non dobbiamo dimenticarlo.

L’intervento del vigile del fuoco Pino Apprendi

“Eravamo intervenuti in tanti disastri ma mai in uno scenario come quello”

Pino Apprendi, in quel maggio del 1992, era un vigile del fuoco e fu il caposquadra che intervenne sul luogo della strage di Capaci. “Era un pomeriggio come un altro, quello del 23 maggio 1992 – racconta al QdS Apprendi – ed eravamo nel cosiddetto servizio di attesa. Era un sabato e, con i colleghi, eravamo nella sala biliardo e si parlava di quello che avremmo fatto quella sera, forse andando in pizzeria per trascorrere un po’ di tempo con mogli e figli. Quando squillava il telefono e c’era un allarme, ossia un servizio da far uscire, veniva attivato l’altoparlante esterno. L’addetto al centralino, Aldo Di Trapani, a seguito di una telefonata attivò questo altoparlante e accese il cicalino, una sorta di pre-allarme. La conversazione era confusa e Di Trapani attivò la squadra di San Lorenzo, il distaccamento Nord in via dei Quartieri, quello più vicino a Capaci, diretto da Salvatore Maltese e dalla centrale fece partire l’ambulanza con gli infermieri. I colleghi distaccati all’aeroporto di Punta Raisi ci raccontavano uno scenario incredibile, con auto che volavano e ricadeva per terra”.

Le notizie che arrivavano non erano definite, anche perché non era ancora chiaro quello che era successo: forse una bombola di gas, forse la rottura di un tubo del metano. “Appena si cominciò a capire che si trattava di un attentato – prosegue Pino Apprendi – Di Trapani attivò la squadra che dirigevo io, con i mezzi più adatti all’accadimento, quelli del polisoccorso. Durante il tragitto verso Capaci, a causa del blocco del traffico, ci muovevamo su un’unica corsia e, nella galleria, rischiammo di scontrarci con un mezzo che arrivava dal luogo della strage a sirene spiegate. Al suo interno c’era il corpo di Giovanni Falcone”.

Polvere, odore di esplosivo, corpi devastati, rovine dappertutto. “Lo scenario che si propose ai nostri occhi – ricorda Apprendi – ricordava Beirut. Oggi potrebbe sembrare la Gaza di cui vediamo le immagini tutti i giorni al telegiornale. Nell’aria si sentiva l’odore dell’esplosione, ci penetrava nelle narici. Fummo inviati là dove la prima Croma, quella su cui viaggiavano Montinaro, Schifani e Dicillo, era volata oltre duecento metri da dove avevamo visto il cratere. In maniera concitata, ma lucidi, dovevamo evitare che l’auto prendesse fuoco. Attorno a noi vedevamo poliziotti che piangevano, altri che correvano con le mani sul viso colti da una grande disperazione. Ci attrezzammo per girare l’auto blindata, pesantissima. Poi individuammo i punti per il nostro intervento e procedemmo, con il motoflex, al taglio dell’auto tenendo a disposizione una manichetta dell’acqua ad alta pressione e gli estintori”.

Carne inglobata nella lamiera inerme bollente: “Provammo una grande pietà per quei corpi, una grande rabbia e un forte senso d’impotenza per essere arrivati troppo tardi per cercare di salvarli. Il primo cadavere che trovammo ci generò uno shock. Ricordo i corpi ancora caldi di quei ragazzi. Come pompieri eravamo già intervenuti in eventi che erano veri e propri disastri, in cui avevamo scavato per trovare cadaveri, come il terremoto dell’Irpinia, ma mai in uno scenario come quello. Ci trovammo davanti qualcosa che non era assolutamente ordinaria. Conoscevamo, per il suo lavoro, Giovanni Falcone, il maxi-processo, la polemica di chi considerava la sua scelta di trasferirsi a Roma come un tradimento, ma mai avremmo pensato di dover andare là, a Capaci, a tagliare le lamiere dell’auto in cui viaggiavano i suoi ragazzi, i suoi angeli di scorta”.

“Il terremoto, seppur tragico – conclude Apprendi – è un evento naturale ma in quell’occasione ci trovammo davanti a una devastazione dovuta alla cattiveria, alla mano dell’uomo che agisce per distruggere, alla mano dell’uomo che ha voluto dimostrare la propria forza con una strage che voleva incutere terrore nei magistrati e nell’intera società. Porto con me, ancora oggi, il calore di quei brandelli di corpi nelle mie mani, quelle mani che hanno toccato i corpi senza vita di Antonio, Vito e Rocco”.

Le autopsie nei ricordi di Nuccia Albano

“Una grande sofferenza che rivivo ogni anno”

Palermo, negli anni Ottanta, fu lo scenario di quella che è ancora ricordata come la “seconda guerra di mafia” con l’attacco dei Corleonesi. Totò Riina, il “contadino” sceso dalla Rocca Busambra, in pochi mesi s’impadronì della mafia dell’Isola grazie ai traditori che aveva all’interno di ogni “famiglia” palermitana e che gli svelarono i movimenti e tutte le mosse di tutti i suoi nemici. Omicidi, stragi: nelle strade di Palermo che s’insanguinavano si aggiunse anche la lupara bianca, il sequestro senza ritorno. Una guerra in cui si contarono oltre mille morti. Molti di quei corpi senza vita passarono sui tavoli dell’ambulatorio di Medicina legale dell’Azienda universitaria Policlinico di Palermo. Nuccia Albano, oggi assessore regionale alla Famiglia, Politiche sociali e Lavoro, nel maggio del 1992, era dirigente medico di I livello e collaborava con il primario del servizio di Medicina legale, Paolo Procaccianti.

“Quel 23 maggio – racconta al QdS – ero nella mia casa di villeggiatura a Partinico e, verso le 18, imboccai l’autostrada in direzione Palermo. All’altezza di Carini trovai l’inferno. C’era già il blocco stradale e chiesi informazioni alle Forze dell’ordine. Risposero: ‘Lo saprà, lo saprà’. Arrivai nelle vicinanze di Palermo quando appresi quanto era successo. Una notizia devastante, anche perché conoscevo sia Giovanni Falcone che Francesca Morvillo. Andai in Medicina legale, dove ho trascorso la notte. C’era una grande confusione e ricevemmo le salme di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo”.

“La mia conoscenza di Falcone e Morvillo – prosegue Albano – non era solo professionale. Avevo trascorso con loro anche momenti di convivialità con amici comuni ed ebbi la possibilità di apprezzare le qualità di Falcone, uomo molto ironico, che viveva con grande leggerezza questi momenti, riuscendo a spogliarsi dell’importante incarico che rivestiva e a godersi i momenti di relax”.

Il 24 maggio, furono eseguiti gli esami autoptici: “L’efferatezza dell’evento, la sua imprevedibilità e soprattutto l’eseguire le autopsie su persone che conoscevo,hanno generato in me uno tsunami emotivo. Ricordo la sofferenza di quei momenti”.

I corpi di Falcone e di Morvillo erano i più composti, ma non si può dire la stessa cosa quelli di Montinaro, Schifani e Dicillo. “In quell’occasione – continua Albano – vista l’evidenza della causa della morte, si procedette a quella che è definita ispezione cadaverica, piuttosto all’autopsia”.

Il dolore sembra non abbandonare mai chi ha vissuto gli effetti di quella strage. “Quando deposi al processo Capaci uno – conclude Albano – fui costretta a rivivere quei momenti e mi resi conto che ricordarli generava in me una grande sofferenza. Sofferenza che, da quel 1992, rivivo ogni anno in occasione dell’anniversario”.