PALERMO – A patire più di tutti le conseguenze del cambiamento climatico è l’agricoltura e, in particolare, quella siciliana che ormai ogni anno si trova stretta in una morsa tra lunghi periodi di siccità e brevi ma violenti nubifragi. A pagare il conto degli eventi estremi sono i produttori locali che devono fronteggiare di volta in volta le varie criticità, dalla mancanza di acqua fino ai danni al raccolto a causa delle alluvioni. Lo scorso anno si sono raggiunte nuove “vette”, tanto che il Wwf ha definito il 2021 come “l’anno nero dell’agricoltura”, anche a causa del crollo di molte produzioni (dalla frutta al miele). “Lo scorso anno – si legge nel rapporto dell’associazione – si è registrato un calo medio della produzione di frutta pari al 27%: più di un frutto su quattro è andato perduto a causa degli effetti di eventi estremi e imprevedibili quali gelate, siccità e grandinate”.
“Noi agricoltori lavoriamo sotto il cielo e senza riparo – spiega al Quotidiano di Sicilia, Massimiliano Giansanti, presidente nazionale di Confagricoltura -. Per questo il nostro è il primo settore economico a subire le conseguenze del clima, soprattutto in questa stagione, con frutta e ortaggi pronti per essere raccolti dopo un anno di lavoro e di investimenti importanti”.
Negli ultimi mesi i coltivatori hanno dovuto fare i conti, come ormai capita puntualmente ogni anno, con una prolungata e “mai vista” siccità invernale. Seppure non siamo ai livelli del Nord Ovest, dove dall’1 dicembre ai primi giorni di gennaio si è assistito a un crollo senza precedenti delle precipitazioni tipiche della stagione (in alcune aree si è arrivati a 60 giorni senza nemmeno un goccio di pioggia), anche l’Isola ha visto “poca acqua” nelle prime settimane del 2022. La situazione, però, almeno a leggere l’ultimo comunicato in merito di Siciliacque, società che si occupa del servizio di sovrambito in alcuni invasi e pozzi regionali, non sarebbe preoccupante. “I volumi d’acqua accumulati – è scritto in una nota dello scorso 22 dicembre – sono sufficienti a scongiurare per tutto il 2022 qualsiasi ipotesi di crisi idrica”.
Eppure la scarsità generale di precipitazioni non fa bene al suolo. Proprio ieri l’Anbi ha parlato di una “grande sete che sta colpendo vaste aree d’Italia”. L’Osservatorio nazionale sulle risorse idriche ha sottolineato nel suo bollettino settimanale come “l’inverno secco, che sta coinvolgendo l’intera Europa mediterranea, non solo compromette la biodiversità, ma sta incidendo sull’umidità del suolo e sulla produzione idroelettrica, che ad oggi è in linea con gli anni peggiori, a causa dello scarso accumulo di risorsa nei bacini montani”.
Il rischio della perdita di biodiversità nell’Isola si traduce, come affermano le più autorevoli fonti istituzionali, nel pericolo concreto di una progressiva e inesorabile desertificazione del territorio. Secondo le ultime stime della Commissione europea, risalenti al 2018, oltre il 70% dei suoli siciliani è a rischio di perdere la propria capacità di produrre risorse e biomassa. Una percentuale confermata anche da uno studio del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) risalente al 2019 e da uno dell’Osservatorio risorse idriche del 2020.
“Ma il quadro non è ancora così grave – puntualizza al QdS Gaetano Piccione, giornalista siciliano esperto nel settore ortofrutticolo – anche se qualche avvisaglia piuttosto importante si nota nel siracusano, area indicata come ‘zona rossa’ dall’European srought observatory (Edo). Preoccupano più da vicino gli effetti indiretti del riscaldamento, vale a dire i maggiori fabbisogni irrigui e la diminuzione di sostanza organica nei suoli, con conseguente perdita di fertilità e maggiore sensibilità alla già citata desertificazione”.
Proprio a Siracusa lo scorso 11 agosto si è raggiunto il record di 48,8 gradi e in generale in Sicilia nel corso dell’estate 2021 si sono contati 37 giorni bollenti su 92. “L’innalzamento delle temperature atmosferiche ha già influito – ha aggiunto al QdS Paolo Guarnaccia, docente di Agricoltura biologica e di Gestione sostenibile dei sistemi colturali presso il Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente dell’Università degli Studi di Catania – sulla durata della stagione vegetativa di molte colture in ampie aree dell’Europa. Si prevede che la produzione agricola sarà sempre più variabile di anno in anno, anche a causa di altri fattori quali la diffusione di nuove specie di insetti, malattie fungine ed erbe infestanti che potrebbero influire negativamente sul mantenimento della biodiversità e determinare l’impossibilità di continuare a coltivare alcune varietà agrarie nel territorio che le aveva ospitate nei secoli precedenti. In Sicilia alcune specie di colture e varietà attualmente coltivate in una determinata area potrebbero non essere in grado di adattarsi abbastanza velocemente ai cambiamenti”.
Cambiamenti climatici che hanno portato, tra l’altro, a una proliferazione di coltivazioni tropicali in Sicilia (con superfici raddoppiate negli ultimi tre anni, soprattutto ad opera di giovani agricoltori, dice il Wwf). Ma “ricordo – ha puntualizzato Piccione – che i frutti esotici vengono coltivati nell’Isola almeno dal 1957. Fu quello l’anno in cui il prof. Francesco Calabrese dell’Università di Palermo introdusse, coltivandole con successo, le prime piante di avocado dalla California anche se le coltivazioni intensive sarebbero arrivate molti anni dopo, assieme a tante altre produzioni come la papaya, passion fruit, litchi e altre, tra cui il mango”. Secondo l’esperto, dunque, il fenomeno non si può, almeno al momento, legare al surriscaldamento. “Il motivo principale della diversificazione colturale verso gli esotici – ha aggiunto – risiede nella necessità di dare maggiore valore alle attività produttive ed è, dunque, prevalentemente riconducibile a fattori commerciali”.