“Una volta recuperato il sacco, notavano residui di materiale di colore nero”. Questa frase, inserita in una denuncia sporta a gennaio alla Capitaneria di porto, potrebbe accendere i riflettori sui lavori di dragaggio del porto di Trapani in corso da qualche mese e destinati a durare poco meno di due anni. A chiedere alle autorità di accertare se le operazioni si stiano svolgendo nel rispetto delle prescrizioni inserite nell’autorizzazione ambientale rilasciata dalla Regione è l’associazione Principesca.
Nello specifico, l’organizzazione di categoria solleva perplessità sulle procedure di gestione del materiale prelevato dai fondali dell’infrastruttura trapanese e depositato al largo, a una distanza di circa due miglia dalla costa. Stando a quanto sostenuto dall’associazione, presieduta da Giovanni Lo Coco, l’esecuzione dei lavori potrebbe “pregiudicare la fauna locale” e causare problemi all’attività dei pescatori, mettendo a repentaglio anche la sicurezza delle imbarcazioni e del personale a bordo.
La storia dell’appalto – finanziato con 60 milioni di euro provenienti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza – è molto complessa ed è risalendo l’iter autorizzativo che ha portato al progetto presentato dall’Autorità portuale della Sicilia Occidentale che è possibile trovare alcune risposte ai quesiti posti dall’associazione. O perlomeno ragionare sulle modalità con cui i fanghi dovrebbero essere gestiti.
Ad aggiudicarsi i lavori è stato il raggruppamento temporaneo d’impresa costituito dalla romana Società Italiani Dragaggi spa e dalle campane Rcm Costruzioni e Tecnobuilding. La loro è stata l’unica busta arrivata all’Autorità portuale, che dopo avere verificato la proposta tecnica ha deciso di aggiudicare la gara assegnando al raggruppamento il massimo punteggio, cento su cento.
Le tre ditte hanno proposto un ribasso percentuale del 2,50 per cento – chiudendo il contratto per un valore di poco superiore ai 59 milioni – e una riduzione della durata del cantiere di tre mesi sui 720 giorni previsti dal bando. Cronoprogramma che dovrà essere rispettato considerando come inizio il mese di ottobre, ovvero quando è avvenuta formalmente la consegna del cantiere, anche se i lavori sono entrati nel vivo qualche settimana dopo.
Nella denuncia presentata dall’associazione di pescatori si contesta che “il materiale prelevato viene scaricato” in un tratto di mare la cui profondità “varia dai 130 ai 600 metri”. Ma a preoccupare maggiormente Lo Coco e soci è la possibilità che il materiale che finisce nei fondali potrebbe contenere sostanze inquinanti.
Ipotesi, questa, suffragata dalla testimonianza raccolta dal comandante di un motopesca che, trovandosi a navigare nella zona in un cui i fanghi verrebbero rilasciati, ha avuto problemi a salpare le reti e poi, dopo essere riuscito a recuperarli, avrebbe trovato tracce di colore nero che farebbero pensare a residui di “idrocarburi”.
Dallo studio delle relazioni che accompagnano il progetto che nel 2022 ha ottenuto il via libera dalla commissione tecnico-specialistica della Regione, a patto che venissero rispettate diverse prescrizioni, emergono tre diverse modalità di gestione del materiale ricavato dalla liberazione dei fondali del porto trapanese. Tale scelte derivano dai differenti risultati ottenuti nel corso delle analisi effettuate per caratterizzare chimicamente i fanghi di dragaggio.
In una scala compresa tra A ed E, dove il primo rappresenta il livello più basso di contaminazione, i test – eseguiti su 265 campioni – hanno fatto emergere “quasi il 50 per cento dei campioni ricade in classe D, il 14 in classe C e i restanti in classe A e B”. A ciò si aggiunge un campione che “è stato riscontrato in classe E”. In termini di volumi, invece, l’uso di un modello 3D ha dato come previsione l’esistenza di 174mila metri cubi di materiale contaminato di classe B, 144mila di classe D, oltre 58mila di classe A e poco meno di 38mila risultati di classe C.
La ripartizione nelle cinque classi è fondamentale perché è a esse che fa riferimento il decreto ministeriale 173/2016, che disciplina le modalità di trattamento dei materiali ricavati dal dragaggio dei porti. La normativa prevede infatti che mentre per le classi A e B è prevista la possibilità di utilizzare i fanghi per attività di ripascimento o deposito in fondali a una distanza minima di tre miglia, dalla classe C in poi, nella consapevolezza degli elevati livelli di contaminazione, bisogna intervenire con operazioni alternative: dall’immersione in ambienti conterminati, ovvero in vasche che garantiscano alla stregua di discariche in mare il contenimento del materiale depositato, alla rimozione e trasferimento in siti specializzati sulla terraferma.
I professionisti a cui l’Autorità portuale ha affidato la progettazione dell’intervento di dragaggio hanno ipotizzato diverse modalità di trattamento, ma la maggior parte di esse è stata esclusa per l’inadeguatezza del porto trapanese. In una relazione, dopo avere chiarito che “la granulometria del sedimento è costituita da una altissima frazione non idonea per il ripascimento” si legge che “l’opzione di gestione in ambienti conterminati dipende dalla reale disponibilità infrastrutturale che oggi non esiste nel porto di Trapani”.
Per i progettisti, dunque, la strada da percorrere sarebbe stata quella di immergere “deliberatamente in mare, in un’are idonea per profondità dei fondali e a distanza di oltre 2,5 miglia” i sedimenti di classe A e B, mentre per quelli di classe C e D è stato sconsigliato di puntare si siti esterni “da usare come invaso con capping (copertura, ndr) sottomarino” per una serie di motivi che hanno portato a ritenere “impraticabile” tale soluzione.
La strada proposta, invece, prevedeva in un primo tempo l’invio in un impianto di tipo soil washing, deputato di fatto a lavare i fanghi, riducendone il livello di contaminazione al punto di riportare il materiale in classe A e B, per poi di conseguenza depositarlo – sulla scorta anche di uno studio redatto per le prime due classi dall’Università Kore di Enna a cui si è rivolta l’Autorità portuale – nei fondali al largo di Custonaci, a otto miglia dal porto di Trapani e a una profondità tra 200 e 500 metri.
Tale opzione, tuttavia, si è scontrata con i rilievi fatti nel corso della procedura di valutazione dell’impatto ambientale da parte della Cts, all’epoca presieduta da Aurelio Angelini. E alla fine è stato stabilito che i sedimenti di categoria C e D non finissero in mare. “I sedimenti in uscita dall’impianto di trattamento verranno destinati esclusivamente a discarica o a centro di recupero di materiali inerti; ciò avverrà in relazione ai risultati della caratterizzazione degli stessi sedimenti in uscita dall’impianto di trattamento”, si legge nel progetto esecutivo che le imprese vincitrici dell’appalto saranno tenute a seguire.
L’appalto finanziato con i fondi del Pnrr prevede anche un’articolata fase di monitoraggio delle operazioni. “Nell’area di rilascio dei sedimenti saranno monitorati sia in fase pre, durante e post operam i parametri di qualità della colonna d’acqua”, si legge nei documenti allegati alla procedura di gara. I controlli che viene previsto siano costanti dovrebbero riguardare anche la prateria di posidonia oceanica e lo stato di conservazione di altri habitat.
Stando al progetto di monitoraggio, “tutti i mezzi navali saranno dotati di sistema di tracking satellitare della rotta al fine di poter monitorare anche i percorsi di andata e ritorno dal sito di dragaggio e dal sito di immersione”.
Mentre la denuncia presentata dall’associazione presieduta da Lo Coco parla dei possibili riflessi per l’attività di pesca, nei documenti esaminati dalla Cts si parla di uno studio in cui, in merito alla presenza del nasello nel sito scelto per depositare i fanghi, si dice che “dalle indagini si è evinto come la presenza delle specie risulta altamente impoverita e fortemente influenzata dalle attività di pesca a strascico, che ne hanno prodotto una condizione di instabilità”.
Inoltre si ritiene che “le uniche specie che si rinvengono nelle aree, sono fortemente resistenti alle condizioni di infangamento e in grado di riprendersi rapidamente da eventi di disturbo”. Posizione del tutto opposta a quella sostenuta dall’associazione Principesca: “Non è vero che manca il pescato – replica Lo Coco al Qds – Basta verificare i dati del centro Sim di Roma dove noi ogni giorno inviamo i dati di cattura. La nostra preoccupazione, semmai, è con queste attività gli habitat possano essere seriamente danneggiati”.
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