Tre secoli fa il terremoto più violento e distruttivo mai abbattutosi in Sicilia. Era il 1693: l’isola, nella parte orientale, fu investita da un sisma di magnitudo impressionante che rase al suolo il Val di Noto colpendo a morte anche la città di Catania, già duramente provata dall’eruzione dell’Etna di qualche decennio prima. Di fronte al dilagare della pandemia, con i contagi in crescita esponenziale, gli ospedali saturi e il numero di decessi che inizia a risalire, il rischio sismico passa in secondo piano. Eppure non dovrebbe. Quale occasione migliore, dunque, se non un anniversario, per riportare sotto i riflettori una condizione per cui occorre mantenere alta l’attenzione ed effettuare interventi di mitigazione del rischio. Tantissimi infatti gli episodi violenti che hanno causato devastazione e morte sull’Isola, come ricostruisce Marco Neri, vulcanologo e Primo Ricercatore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, parlando di tre grandi terremoti: quello di Messina, quello del Belice e quello di Santa Lucia.
“Si tratta sempre di terremoti ‘tettonici’, generati dalla dinamica collisionale tra la placca tettonica africana (a sud) ed eurasiatica (a nord) – spiega Neri. Il sisma di magnitudo 7.1 che il 28 dicembre 1908 ha colpito Messina, Reggio Calabria ed altri centri minori ha causato oltre centomila vittime ed è stato generato dal movimento di una faglia lunga circa 35 chilometri, in larga parte ubicata sul fondale marino dello Stretto di Messina. Il 15 gennaio 1968 un sisma di magnitudo 6.4 ha devastato la Valle del Fiume Belice interessando numerosi centri abitati di una vasta area della Sicilia occidentale, causando almeno 352 vittime e centomila sfollati; in questo caso la struttura tettonica sismogenetica che si è attivata è lunga almeno una trentina di chilometri ed è orientata in senso nordest-sudovest”.
Ma è il sisma di Santa Lucia, di magnitudo 5.6 che colpì la Sicilia centro orientale il 13 dicembre 1990 il più simile a quello della Val di Noto. “Dal punto di vista geodinamico, più si avvicina al terremoto del 1693 – dice Neri. Infatti, è stato generato dal movimento di una faglia appartenente alla medesima struttura tettonica, la Scarpata ibleo-maltese, responsabile del sisma del 1693 e che si sviluppa per trecento chilometri di lunghezza sul fondo del Mare Ionio. La scossa sismica ha colpito principalmente le province di Siracusa e Catania, causando dodici vittime e altre sei persone sono decedute per lo spavento, circa 300 feriti e circa 15.000 sfollati”.
Il devastante terremoto del Val di Noto, unico del suo genere, rappresenta un punto di partenza per gli esperti. Un evento di riferimento per programmare le azioni successive. Come spiega Carlo Cassaniti, Geologo & Disaster Manager. “L’evento del 1693 costituisce il terremoto di ‘riferimento’ per gli scenari di rischio sismico attesi per la Sicilia Orientale – afferma; la zonazione sismica attualmente in vigore e le mappe di pericolosità sismica evidenziano quale potrebbe essere lo scuotimento atteso nelle diverse aree dell’isola”. Dove, l’enorme antropizzazione e urbanizzazione potrebbe aggravare il rischio esistente. “Lo scenario sismico atteso per la Sicilia Orientale è fortemente condizionato dal processo di urbanizzazione sviluppatosi nell’ultimo secolo che, ai tempi nostri, aumenta notevolmente il rischio sismico rispetto al 1693 – sostiene il geologo, che affronta le condizioni dei centri storici delle città più grandi, come Catania e Messina, già teatri di violenti sismi.
“Le tre città metropolitane sono state edificate in contesti geologici totalmente differenti tra loro e hanno avuto storie sismiche altrettanto diverse, caratterizzate da eventi sismici molto importanti – continua. Tali eventi, nel caso di Catania (1693) e Messina (1908), hanno portato alla ricostruzione dei centri storici che certamente oggi non rispondono alle nuove normative tecniche in materia di costruzioni in zone sismiche. Negli ultimi dieci anni sono stati avviati progetti di miglioramento o adeguamento sismico al fine di migliorare le condizioni strutturali degli edifici storici, evitando i crolli a seguito di un terremoto con magnitudo importante – prosegue Cassaniti che sottolinea: “E’ un processo ancora in corso che durerà ancora per molti anni – aggiunge – considerando l’elevato numero di edifici storici e monumentali presenti nelle nostre città e nei centri storici minori siciliani”.
Una situazione critica non differente da quella in cui si trovano le città costiere, a rischio tsunami. “Uno simile a quello del 1693 ai giorni nostri avrebbe degli effetti devastanti in quanto oltre all’elevata urbanizzazione delle coste dovuta al processo di litoralizzazione iniziato nel dopo guerra, le coste del siracusano sono caratterizzate dalla presenza di importanti impianti industriali che sarebbero certamente interessati dal fenomeno con i conseguenti rischi ambientali associati – evidenzia ancora Cassaniti. Che si sofferma anche sulla ricostruzione, paragonando due eventi sismici in seguito ai quali il comportamento di governo e amministrazioni fu differente.
“Al di là dei differenti fattori tra i due terremoti (diversa energia, estensione e numero di danni, vittime e feriti) – dice – quello del Belice è certamente un evento recente che ha permesso di raccogliere molte informazioni e dati scientifici. Molti paesi furono rasi al suolo, tra questi Gibellina, uno dei più danneggiati. Sulla fase della ricostruzione post sisma i due eventi hanno avuto uno sviluppo diverso – prosegue: quello del 1693 determinò l’avvento dello stile barocco come modello architettonico; nel 1968 invece l’evento sismico fu gestito con molta impreparazione. Il governo dell’epoca favorì un processo di spopolamento abitativo con un esodo di circa 30.000 persone e una ricostruzione molto lenta. Fu soprattutto una ricostruzione ‘culturale’ prima che edilizia, con la creazione del Cretto di Gibellina, progetto di Burri”.
M.T.
PIANI DI EMERGENZA COMUNALI DA AGGIORNARE (CONTINUA LA LETTURA)
Il lavoro degli esperti non si ferma. Il materiale che la storia ha consegnato non può lasciare indifferenti: tutt’altro. I terremoti del passato devono indicare la strada a chi oggi governa territori fragili. O almeno dovrebbe.
“Oggi, la comunità scientifica non può determinare la data di un evento sismico ma ha mappato l’intero territorio nazionale al fine di rendere note le aree che hanno maggiore probabilità di essere interessate da un terremoto – afferma Cassaniti. Le nuove norme tecniche per le costruzioni in zone sismiche (NTC-18) consentono di progettare e realizzare costruzioni sismo-resistenti, ma resta il problema dell’edificato e delle infrastrutture realizzate prima degli anni novanta che devono necessariamente essere verificate e adeguate sismicamente”. Insieme all’educazione civica delle comunità a rischio.
“Oltre agli interventi strutturali, la prevenzione sismica prevede anche interventi definiti come ‘non-strutturali’ quali le attività di pianificazione di protezione civile che devono, a scala comunale, definire gli scenari di rischio sismico attesi e le azioni da attivare in caso di terremoto – spiega ancora il geologo. Particolare importanza rivestono le norme comportamentali di autoprotezione di ogni singolo cittadino che possono aiutare a mitigare gli effetti di un forte evento sismico”.
Aggiornare norme e regolamenti, attivare presidi di protezione civile, comunicare e formare. Tante le attività “collaterali” che le amministrazioni potrebbero realizzare per contribuire alla mitigazione del rischio. “Le amministrazioni comunali possono e devono aggiornare i piani di emergenza comunale, potenziare la comunicazione alla popolazione dei rischi presenti nel territorio e programmare esercitazioni periodiche di protezione civile al fine di formare quella cultura della prevenzione al rischio sismico che ancora è troppo scarsa – sostiene Cassaniti. Bisogna investire sulle giovani generazioni e quindi partire dalle scuole per costruire una nuova coscienza ‘sismica’ nei ragazzi, una nuova classe dirigente – conclude – che dovrà gestire le emergenze del prossimo futuro”. (mt)
TRAPANI – In questo mese ricorrono i 54 anni dal Terremoto del Belice, uno degli eventi sismici più drammatici del Belpaese. Nel 1968 diverse scosse si verificarono tra il 14 e il 25 gennaio, di cui la più intensa il 15 alle 3 di notte, 10° grado della Scala Mercalli, sconvolse i territori di Gibellina, Salaparuta, Santa Ninfa, Montevago, Partanna, Poggioreale e Santa Margherita del Belice. In una decina di giorni la conta dei danni: oltre 9.000 le case, le chiese e gli antichi palazzi distrutti, 296 le vittime, circa 600 i feriti, 100.000 i senzatetto. A Gibellina venne raso al suolo il 100% degli immobili pari a 1.980 edifici, stessa sorte a Poggioreale e Salaparuta, a Montevago fu distrutto il 99% del patrimonio e a Santa Margherita il 70-80% delle unità edilizie.
A pensare bene, il numero delle vittime fu contenuto in quanto il generale Dalla Chiesa lanciò in tempo l’allerta e molti riuscirono a sfollare. La valle, però, divenne un’area fantasma per una serie di fattori che hanno inciso nella distruzione del 90% del patrimonio. Primo fra tutti il mediocre contesto rurale delle Città colpite, poi gli smottamenti e le sorgenti di acqua calda che si aprirono a causa del sisma; territori dell’entroterra dimenticati dal Governo centrale anche durante lo sfollamento: nelle tendopoli le condizioni igieniche erano pessime, i sindaci denunciarono la mancanza di viveri e medicine e il Governo Moro III non fece altro che distribuire biglietti ferroviari, nonostante le interruzioni alle linee ferrate e nelle strade.
Il risultato fu un esodo di 30 mila persone che lasciarono la propria terra. A 54 anni di distanza, la ricostruzione del Belice – iniziata 20 anni dopo il sisma grazie alla lungimiranza del sindaco di Gibellina Ludovico Corrao – non è completa. La ricostruzione avviata negli anni ’70 fu innanzitutto culturale, grazie alle opere realizzate da artisti come Pietro Consagra, Carla Accardi, Arnaldo Pomodoro e Alberto Burri. E’ stato creato da quest’ultimo il ‘Grande Cretto’, un labirinto di blocchi di cemento al posto delle case distrutte dal sisma, su una superficie collinare di 80mila mq. “Fiori nel cemento”.
Ad oggi, servirebbero almeno 350 milioni di euro per completare le città terremotate dove insistono ancora strade non asfaltate, senza fognature e case senza acqua né luce. Sambuca, ad esempio, attende finanziamenti per 300 progetti di edilizia privata e per il restauro di chiese; altri 600 progetti attendono fondi. Chi ha vissuto gli eventi sismici del ’68 non può dimenticare; tanta è stata la paura nell’avvertire la scossa di 4,1 il 7 giugno 1981 nella vicina Petrosino, che ha provocato sì danni ma non vittime. Ad oggi la Valle rientra in una fascia di pericolosità di prima categoria e l’allerta di possibili nuovi movimenti tellurici è sempre attuale benché non facilmente prevedibile.
C.M.
IL RISCHIO TERREMOTO VULCANICO IN SICILIA (CONTINUA LA LETTURA)
Rischio sismico elevato, in Sicilia orientale, non solo per la faglia Ibleo Maltese. Anche la presenza dell’Etna, vulcano attivo più alto d’Europa, rappresenta un elemento di rischi. Sebbene le due tipologie di eventi siano diverse, come spiega il vulcanologo Marco Neri. “I terremoti ‘vulcanici’ sono generati dai movimenti del magma nel corso della sua risalita verso la superficie. Il magma che risale, infatti, preme sulle pareti del condotto vulcanico deformandolo, ed a volte causa la sua rottura, generando una sismicità di magnitudo solitamente modesta e superficiale – dice. I terremoti ‘tettonici’, invece, sono generati dal movimento di fratture della crosta terrestre che si formano, generalmente, in corrispondenza dei margini che separano placche tettoniche contigue – prosegue. In questo secondo caso, le masse in gioco sono molto più grandi, le fratture della crosta che si muovono possono essere molto più lunghe e quindi i terremoti che si generano possono raggiungere magnitudo elevate”.
Questi ultimi sono, dunque, più violenti e nulla hanno a che vedere con quelli generati dall’attività vulcanica che, comunque, possono causare gravi danni, come accaduto nel 2018, a Santo Stefano. “Anche se l’Etna è uno dei vulcani più attivi al mondo, la sismicità generata dai movimenti del suo magma in profondità rimane comunque di magnitudo relativamente modesta e quindi sostanzialmente innocua per le popolazioni che vivono sulle sue pendici – spiega Neri. A volte, però, la spinta esercitata dal magma in risalita verso la superficie può deformare i fianchi del vulcano fino a farli ‘collassare’ repentinamente di alcune decine di centimetri. Questa deformazione può generare terremoti superficiali abbastanza violenti, come quello di magnitudo 4.9 che il 26 dicembre 2018 ha colpito il fianco orientale dell’Etna e che ha danneggiato gravemente il patrimonio urbano di nove Comuni etnei, in particolare Zafferana Etnea ed Acireale”.
Il sisma, tre anni fa, causò danni ingenti, con parte del territorio ancora inagibile e una frazione, Fleri, praticamente svuotata. La macchina per la ricostruzione è partita immediatamente, ma la strada sembra ancora lunga. “In due anni di lavoro, dal momento della sua costituzione (gennaio 2020), la Struttura Commissariale guidata dal dott. Salvatore Scalia ha emanato 41 ordinanze con le quali ha avviato la ricostruzione sia pubblica che privata – afferma Neri, che fa parte della struttura commissariale. Al fine di procedere in sicurezza e rapidità con i lavori di riparazione e ricostruzione delle aree colpite dal sisma, l’Area Geologia della Struttura Commissariale ha approfondito gli studi all’interno della Zona di Attenzione dell’area terremotata, focalizzandosi sulla fagliazione superficiale prodotta dal sisma ed operando conformemente alle Linee guida per la gestione del territorio in aree interessate da Faglie Attive e Capaci. Il lavoro è stato condotto attraverso l’istituzione di un Tavolo Tecnico convocato dal Commissario straordinario Scalia e composto da esperti della Struttura Commissariale, del Genio Civile di Catania, dell’Agenzia nazionale Invitalia e del Dipartimento Regionale di Protezione Civile della Regione Siciliana – aggiunge – e con il contributo di alcuni geologi dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia autori di pubblicazioni scientifiche di livello internazionale specificamente dedicate al sisma del 26 dicembre 2018”.
“La mappa prodotta dalla Struttura Commissariale – prosegue – individua la posizione delle faglie che si sono attivate il 26 dicembre 2018 e circoscrive attorno ad esse sia la Zona di Suscettibilità (ZS) che quella di Rispetto (ZR). L’individuazione di tali aree ha consentito di procedere con l’opera di ricostruzione anche nelle zone più esposte al rischio sismico e quindi anche a Fleri, modulando gli interventi in relazione al delicato contesto geologico-strutturale della zona”.
Tutto il territorio etneo, comunque, è a rischio. In particolare le aree antropizzate più vicine alla cima. Una situazione nota, come afferma Neri. “In questo momento, ma direi sempre, sono a maggior rischio vulcanico tutte le zone poste in prossimità della sommità del vulcano, ovvero quelle maggiormente esposte all’invasione di colate di lava generate dall’attività sommitale e dall’apertura di fessure eruttive laterali – dice. A quote medio-basse, è la sismicità prodotta dalle faglie vulcano-tettoniche etnee a proporsi come elemento di maggiore pericolosità, faglie come quelle di Fiandaca, responsabile del sisma del 2018, o come quelle della Pernicana (fianco nord-est del vulcano), delle Timpe (tra Capomulini e Giarre) o di Ragalna (a sud-ovest). Si tratta, per lo più, di sismicità non eccezionale (solitamente di magnitudo minore di 5) ma superficiale, e quindi potenzialmente distruttiva seppure in aree limitate”.
La recente attività sismica che ha colpito il catanese, invece, non avrebbe a che fare con l’attività del vulcano. “Lo sciame sismico che ha colpito la zona di Motta Sant’Anastasia nelle scorse settimane corrisponde ad una tipica sequenza sismica di natura tettonica, legata ai movimenti della crosta siciliana e che rientra nella normale attività sismica della Sicilia orientale. Nulla a che vedere, quindi, con l’Etna, anche se – conclude l’esperto – sia il vulcanismo che la sismicità sono generati dal medesimo contesto geodinamico di collisione tra la placca tettonica africana e quella eurasiatica”.
M.T.
IL GRANDE SISMA DI MESSINA DEL 1908 (CONTINUA LA LETTURA)
MESSINA – Quei 38 interminabili secondi che spezzarono un filo che si tenta ancora di riannodare. Erano le 5,21 del 28 dicembre 1908 quando la terrà cominciò a tremare. Quel sisma di magnitudo 7,1 trascinò nella sua violenza distruttiva gran parte della provincia di Messina, Reggio Calabria e Catanzaro, per una superficie di oltre seimila chilometri quadrati. Il successivo maremoto, con onde alte oltre due metri e mezzo, portò via tutto quello che c’era lungo le coste dello Stretto.
Furono circa 100mila i morti, di cui 65mila messinesi, il 42% della popolazione. Una città quasi rasa al suolo pose davanti a scelte che inevitabilmente avrebbero condizionato il suo futuro. Ricostruire lì o ricominciare da un’altra parte? Affidarsi a regole antisismiche (prescrizioni su materiali, altezze, distanze) o azzardare nuove tecnologie contenute in alcune proposte che arrivarono? Puntare su una città moderna (emporio commerciale) o ripartire dalla sua storia e vocazione marinara? Che città abbiamo dopo i tanti piani e varianti che si sono susseguiti in questi decenni? Il QdS lo ha chiesto alla professoressa Elena La Spada, già docente di Urbanistica all’Università di Reggio Calabria, autrice di numerose pubblicazioni e consulente nella redazione di alcuni Piani di Zona.
“Il Piano Borzì applica l’ingrandimento a scacchiera e cerca di risparmiare la trama antica, di non cancellare le tracce del passato ma di fatto, con l’applicazione delle nuove leggi sismiche emanate tra il 1908 e il 1911, una serie di vincoli fa sparire la città antica. È vero che si riprendono gli assi principali – continua – ma sono traslati perché la dimensione minima delle strade non consentiva di mantenere gli allineamenti. Viene fuori una città nuova ariosa, anche se con poco verde e senza previsione di ampliamento. Un progetto che si basa su 90mila abitanti (dopo il terremoto Messina ne aveva poco più di 20mila). Il Piano Borzì insedia la città tra il torrente Gazzi e l’Annunziata, perimetrata ad ovest dalla circonvallazione, intuizione straordinaria che in parte riprende la linea delle vecchie mura ma che diventa un limite” – sostiene la docente. La città quindi si amplia dopo la guerra lungo le fiumare, tutta la parte al di là del Piano Borzì diventa una periferia slegata dall’area urbana: sono tutte le aree dell’edilizia popolare, ultra popolare dove si innesteranno successivamente i Piani di Zona. L’edilizia pubblica continuerà in queste ‘naturali’ espansioni del post terremoto”.
Un nuovo Prg viene commissionato nei primi anni ‘60, ma rimane lettera morta. “La città dei Piani, la città senza Piano – dice la professoressa La Spada – di fatto, Messina, dal Piano Borzì al Piano Tekne del ‘78 non ha avuto una visione complessiva della città. La darà, in parte, il Tekne che poi viene giudicato insufficiente – continua. Il Borzì resta valido fino al 1970; nel frattempo, la legge 167 sull’edilizia economica e popolare obbliga a dotarsi di uno strumento urbanistico in cui si inquadrino i vari Programma di fabbricazione. Una visione la darà Urbani, ma anche quel Piano fu bocciato parzialmente dalla Regione per la grande espansione prevista. Fondamentale nella pianificazione della città è la zona grigia creata dal sì o no Ponte sullo Stretto. Anche Urbani dà due soluzioni”. Non decidere sul Ponte ha inevitabilmente bloccato lo sviluppo della città. “All’inizio degli anni 60, si prevedeva lo spostamento della città nella zona nord, perché si riteneva che il ponte si sarebbe fatto – prosegue”.
Il Piano Borzì aveva una sua qualità fino a quando le successive leggi sismiche non hanno avviato una trasformazione consentendo edifici a 21 metri e 5 piani con sostituzioni senza criteri architettonici. “L’espansione – dice Elena La Spada – era prevista dai programmi di fabbricazione con piani di lottizzazioni che facevano da guida ma che non creavano collegamenti della città con le periferie. Una inversione la davano alcuni Piani di Zona del 1969 che però non sono stati applicati se non per fare nuove case, senza considerare le nuove polarità che si volevano creare nelle periferie che riprenderà Urbani come idea ma che non si è realizzata”.
L.B.
di Melania Tanteri, Claudia Marchetti e Lina Bruno