Economia

Annullamento atto fiscale in autotutela, si restringe il campo di applicazione

ROMA – Autotutela: altra pronuncia di Cassazione che ne restringe il campo di applicazione. Dopo l’ordinanza n. 4933 del 20 febbraio 2019, con la più recente n. 24032, depositata il 26 settembre scorso, la musica non cambia.

Secondo i Supremi Giudici, il diniego dell’ufficio alla richiesta di annullamento di un atto fiscale deve essere considerato regolare.

In pratica, anche questa volta, viene sostanzialmente detto che:
a) Il ricorso contro il diniego (espresso o tacito) dell’Ufficio dell’Amministrazione finanziaria di annullare in autotutela un atto regolarmente notificato e non impugnato in Commissione Tributaria, non è ammesso. Diversamente, infatti, verrebbero surrettiziamente riaperti i termini, ormai scaduti, per contestare la pretesa tributaria secondo le regole previste dal Decreto Legislativo 546/1992.

b) I motivi che possono giustificare un ricorso non possono riguardare la legittimità della pretesa tributaria contenuta nell’atto. Devono fare emergere, invece, profili di illegittimità del rifiuto dell’Amministrazione, dimostrando – in particolare – l’esistenza di un interesse pubblico e generale all’annullamento o alla correzione, in autotutela, di quanto originariamente preteso con l’atto emanato.

In verità, sappiamo che l’autotutela è un principio di diritto amministrativo, a carattere discrezionale, subordinato all’esistenza di un interesse pubblico alla rimozione dell’atto ritenuto illegittimo e, per questo motivo, capace di produrre effetti negativi per la Pubblica amministrazione.

Sappiamo pure, tuttavia, che in materia tributaria è stato emanato il Decreto ministeriale n.37 dell’11 febbraio 1997 il quale, oltre ad individuare i casi in cui è certamente possibile procedere all’annullamento di un atto illegittimo, afferma, all’articolo 2, ultimo comma, che l’unico motivo ostativo all’autotutela è l’esistenza di una sentenza di merito, favorevole all’Amministrazione Finanziaria, passata in giudicato.

È opportuno ricordare a questo punto che la Corte di Cassazione, nel lontano 1990, con sentenza n. 2575 del 29 marzo 1990, aveva affermato che “in uno Stato moderno, il vero interesse del Fisco non è affatto quello di costringere il contribuente a soddisfare pretese sostanzialmente ingiuste profittando di situazioni contingenti favorevoli al Fisco sul piano amministrativo o processuale, bensì quello di curare che il prelievo fiscale sia sempre in armonia con l’effettiva capacità contributiva del soggetto passivo, sì da non compromettere per il futuro la fonte del gettito e, al tempo stesso, da stimolare il contribuente alla lealtà fiscale”.

Dovrebbe essere questo, pertanto, il criterio principale da seguire per valutare l’esistenza, o meno, delle condizioni che consentono all’Amministrazione finanziaria di annullare in autotutela un atto, anche quando lo stesso non è stato impugnato in Commissione Tributaria nei termini di legge.

Come diceva una volta la Cassazione, infatti, l’interesse pubblico alla rimozione di un atto amministrativo sbagliato va ricercato non nella possibilità o meno di potere recuperare (spesso anche a causa dell’inerzia dei cittadini) tributi, anche se non dovuti, bensì quello di far sì che i cittadini non vengano chiamati a pagare somme non coerenti con il principio di “capacità contributiva” stabilito dall’articolo 53 della Costituzione e dallo Statuto dei Diritti del Contribuente.

Evidentemente, se l’illegittimità dell’atto non è assolutamente chiara ed è quindi discutibile, allora la necessità di un giudizio giustifica certamente il diniego dell’ufficio, anche quando il ricorso non viene presentato.

Ma se l’illegittimità è invece assolutamente palese, allora l’ufficio non solo ha il potere, ma, probabilmente, ha il dovere di annullarlo, anche d’iniziativa, sia nel caso in cui sia stato instaurato un contenzioso, sia nel caso in cui l’atto si sia reso definitivo per mancata impugnazione. Eppure, non soltanto gli uffici fanno resistenza alle richieste di annullamento in autotutela, ma anche la giurisprudenza della Suprema Corte pare voglia allontanarsi sempre di più da quanto affermato nel 1990 e dai principi di giustizia sostanziale che dovrebbero essere il fondamento di una corretta applicazione dei tributi.

Non dimentichiamo che, specialmente in questo periodo in cui si fa sempre più affidamento ai principi di compliance e di adesione spontanea come strumenti primari per combattere l’evasione fiscale, queste pronunce sono quanto mai negative ai fini del dichiarato intento di rafforzare il rapporto di fiducia tra fisco e cittadini, obiettivo fondamentale dello Statuto dei Diritti del Contribuente.

Intanto, come si diceva prima, ancora una volta la Cassazione si esprime negativamente in materia di autotutela.
Con l’ordinanza precedentemente citata (la n. 24032 depositata 26/9/2019), i Giudici di Piazza Cavour hanno ribadito che il sindacato giurisdizionale sull’impugnato diniego, espresso o tacito, di procedere ad un annullamento in autotutela, può riguardare soltanto eventuali profili di illegittimità del rifiuto dell’Amministrazione, in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l’esercizio di tale potere, e non la fondatezza della pretesa tributaria.

Non ricordando, però, che sulle “ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l’esercizio di tale potere (l’autotutela)” la stessa Cassazione nel 1990 aveva data una definizione abbastanza chiara e logica. Una problematica, quella dell’autotutela, che riguarda in particolar modo l’attività dei Garanti del Contribuente i quali, a norma dell’articolo 13 della Legge 27 luglio 2000 n. 212 (Statuto dei Diritti del Contribuente), sono chiamati per legge ad “Attivare l’Autotutela”, ossia a sollecitare gli uffici fiscali ad annullare gli atti illegittimi tutte le volte in cui tale illegittimità sia tale da non richiedere una valutazione complessa sul merito della questione ossia una pronuncia giurisdizionale definitiva in sede di contenzioso tributario.

Garanti i quali troppo spesso sono costretti a prendere atto di una giustizia sostanziale distante da quella formale.