PALERMO – Meno di sette procedure su cento sono state aperte a tutte le imprese, il resto tutto gestito con sistemi che restringono il mercato. Il dato arriva dalla provincia di Palermo e riguarda le gare d’appalto indette dall’inizio dell’anno. Numeri eclatanti che, la scorsa settimana, hanno portato Ance a sollevare il tema nel corso di un incontro pubblico. Tuttavia più che di un allarme si è trattato di una fotografia ampiamente prevedibile già dal momento in cui – nella primavera del 2023 – il governo nazionale ha apportato profonde modifiche al codice dei contratti pubblici. Un’iniziativa che la maggioranza di centrodestra che sostiene l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha giustificato con l’esigenza di accelerare il percorso di realizzazione delle opere pubbliche, che in Italia da sempre rappresentano il simbolo della lentezza della macchina burocratica, ma che per molti tra gli addetti ai lavori ha rischiato di compromettere i principi di trasparenza e concorrenza.
Nel mirino è finita in particolare modo la scelta di alzare le soglie sotto le quali le stazioni appaltanti possono decidere di indire procedure a inviti. Da un anno a questa parte, infatti, fino all’importo di oltre cinque milioni e mezzo, la scelta dell’impresa a cui affidare i lavori pubblici può avvenire tramite una gara a cui far partecipare un numero limitato d’imprese. In genere non più di una quindicina.
“I dati nella provincia confermano il dato nazionale – si legge in un rapporto di Ance Palermo – Prendendo a riferimento le gare svolte dall’1 gennaio 2024 per importi sopra il milione di euro (e senza considerare i settori esclusi) si ha che le procedure negoziate senza pubblicazione di bando sono il 78,26 per cento e il 15,22 per cento sono procedure ristrette previa manifestazione di interesse, mentre le procedure aperte sono solo il 6,52 per cento”.
Il documento è stato presentato la scorsa settimana dal presidente di Ance Palermo Giuseppe Puccio, durante un convegno svoltosi al Palazzo Forcella De Seta e intitolato “Buone pratiche per l’efficienza nei lavori pubblici e contro il rischio di corruzione e infiltrazioni mafiose”. L’occasione non è stata casuale: la storia remota e recente della Sicilia ha più volte dimostrato come la criminalità organizzata abbia nel settore degli appalti uno dei propri core business. La capacità di drenare risorse pubbliche tramite imprese direttamente controllate o quantomeno compiacenti si intreccia con i fenomeni corruttivi che attecchiscono all’interno della pubblica amministrazione, ovvero nei luoghi in cui le gare d’appalto vengono prima ideate e poi gestite.
Quando si parla di infiltrazioni delle mafie nel mondo dei lavori pubblici, è inevitabile tornare indietro con la memoria agli anni Novanta quando Angelo Siino, geometra di San Giuseppe Jato legato ai Corleonesi svelò il sistema che è passato alla storia come tavolino degli appalti. Conosciuto negli ambienti criminali come il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, quando passò a collaborare con la giustizia Siino spiegò i meccanismi che consentivano alle cosche di fare la cresta sui fondi pubblici che venivano stanziati per la realizzazione delle opere.
La percentuale che spettava a Cosa nostra era solitamente del tre per cento, ma a banchettare al tavolo – suggellando un accordo che era fondamentale affinché il sistema potesse agire indisturbato – erano anche altri attori: i politici che si impegnavano per ottenere i finanziamenti da Stato e Regione, i burocrati il cui contributo era necessario per garantire che le gare venissero controllate senza che nessuno sollevasse sospetti o obiezioni e le stesse ditte. Gli imprenditori, consapevoli della forza di Cosa nostra, accettavano di partecipare alla spartizione delle commesse, dando la propria disponibilità a formare cartelli che, di volta in volta, agivano per consentire all’azienda designata di vincere la gara. Favori che poi sarebbero stati ricompensati, quando a essere designata come aggiudicataria sarebbe stata la propria impresa.
Trent’anni dopo, è difficile stabilire se esista ancora un sistema così rodato che possa incidere nella definizione di chi si occuperà di costruire le opere pubbliche previste in Sicilia e finanziate con il fiume di denaro collegato al Pnrr. Certo è che le regole del gioco attuali rischiano di favorire le azioni di chi potrebbe essere interessato a condizionare le gare.
Il timore è stato pubblicamente espresso nel corso dell’incontro organizzato da Ance e a cui ha preso parte anche il prefetto di Palermo Massimo Mariani. “È emerso come a preoccupare siano soprattutto la discrezionalità nelle procedure di gara e la liberalizzazione del subappalto che renderebbero più facile il rischio di corruzione e di infiltrazioni mafiose”, si legge nel resoconto del convegno.
A porre l’attenzione sull’allargamento delle maglie che regolano la disciplina dei subappalti, ovvero la possibilità per l’azienda aggiudicataria dei lavori di delegare a terzi la loro esecuzione, nell’ultimo anno sono stati i sindacati del settore edile, preoccupati dai possibili riflessi in termini di rispetto delle norme di sicurezza nei cantieri e più in generale dei diritti dei lavoratori. Anche in questo caso in aiuto alla comprensione del tema arriva la letteratura giudiziaria: sono tante, infatti, le inchieste della magistratura che hanno ravvisato nel subappalto il momento in cui la criminalità organizzata si attiva per mettere le mani nei lavori.
Il nuovo codice degli appalti, sulla scorta di un pronunciamento della Corte di giustizia dell’Unione Europea, ha eliminato le limitazioni al subappalto, introducendo anche il cosiddetto subappalto a cascata, ovvero la possibilità che parti delle lavorazioni vengano affidate da un’impresa già subappaltatrice a un’altra. Di contro, la stessa Corte ha specificato che le stazioni appaltanti possano, di volta in volta, stabilire quali parti del progetto debbano essere eseguite dall’impresa aggiudicataria dell’appalto e, di conseguenza, sottratte al regime dei subappalti.
Se questi sono i problemi – perlomeno i principali – che condizionano in negativo l’attuale scenario dei lavori pubblici, l’associazione dei costruttori ha provato a immaginare anche le possibili soluzioni. O meglio ha indicato la strada che andrebbe percorsa per provare a invertire la rotta. “Per porre rimedio a questa situazione, Ance Palermo ritiene che, a normativa vigente, senza bisogno di modifiche legislative, l’introduzione di buone pratiche nell’applicazione del codice possa dare una risposta a queste preoccupazioni, oltre a dare una maggiore efficienza al sistema dei lavori pubblici”, è stato il commento a margine dell’iniziativa.
Quali saranno gli effetti di questo appello lo si vedrà. Ciò che si può dire è che per la prima volta e a oltre un anno dalla sua introduzione viene messo in discussione, in maniera manifesta, il nuovo codice degli appalti. Una riforma che ha visto la luce in nome della velocizzazione delle procedure e del perseguimento del “principio del risultato”, ma che sembra essersi persa per strada diversi pezzi importanti.
Una ricetta in sette punti per riuscire a correggere la rotta intrapresa dal settore dei lavori pubblici dopo l’approvazione, nel 2023, del nuovo codice degli appalti. A proporla è Ance Palermo, fotografando quanto accaduto in provincia nei primi nove mesi di quest’anno ma specificando che si tratta di riflessioni replicabili nel resto del Paese. “Per porre rimedio a questa situazione, però, nessuna proposta concreta è stata avanzata, se si escludono alcune limitate modifiche nella legislazione regionale, che non sembrano avere mutato in modo sensibile la precedente situazione”, si legge nel documento contente le best practice presentate dall’Associazione nazionale costruttori edili per arginare la corruzione e contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore.
Il primo punto contiene osservazioni sul meccanismo dell’offerta economicamente più vantaggiosa: si tratta di un criterio di aggiudicazione delle gare che tiene conto non solo del ribasso ma anche delle migliorie al progetto. Il nuovo codice degli appalti, a eccezione degli appalti che mettono a gara anche lo sviluppo della progettazione esecutiva e di lavori caratterizzati da notevole contenuto tecnologico, consente alle stazioni appaltanti di scegliere il criterio più congeniale. Per Ance, tuttavia, l’offerta economicamente più vantaggiosa affida alle commissioni di gara un livello di discrezionalità eccessivamente ampio nella valutazione delle migliorie tecniche proposte dai partecipanti alla gara. Ed è per questo che l’invito che viene fatto è quello di puntare soprattutto sul criterio del minor prezzo.
“Buona pratica è utilizzare il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa solo nei casi obbligatoriamente indicati dalla legge, ovvero in caso di appalto integrato o di lavori caratterizzati da notevole contenuto tecnologico”, si legge nel documento. Dove viene specificato che anche in questi ultimi casi è consigliabile “evitare l’utilizzo di criteri che non abbiano una oggettiva e misurabile idoneità a migliorare la prestazione offerta e non attribuire alcun punteggio per l’esecuzione di opere aggiuntive”.
In merito agli appalti integrati, per Ance si tratta di una materia che bisognerebbe ridurre il più possibile, anche per evitare una lievitazione dei costi rispetto a quanto previsto nei progetti di fattibilità. “Buona norma è che l’ente appaltante si doti per tempo delle progettazioni esecutive redatte da progettisti dalla stessa selezionati ed eviti di ricorrere all’appalto integrato come una scorciatoia per celare i propri ritardi”, viene suggerito.
Se è vero che il codice degli appalti ha innalzato le soglie che consentono di optare per procedure a inviti, le stazioni appaltanti sulla carta potrebbero autonomamente scegliere di indire gare aperte. Una possibilità di cui però quasi mai ci si avvale. “La motivazione, addotta dalle stazioni appaltanti, ovvero che la procedura negoziata senza pubblicazione di bando di gara sia più veloce, mentre la procedura aperta sia lunga e farraginosa non sembra, in verità, molto convincente”, ricorda Ance, sottolineando però come si tratti di un abbaglio, specialmente nel caso di gare gestite con il criterio del minor prezzo. “La procedura aperta, infatti, può svolgersi con la cosiddetta inversione procedimentale, ovvero con il controllo della documentazione sui requisiti delle imprese che partecipano alla gara, effettuato successivamente all’aggiudicazione e solo in capo all’offerente che ha presentato la migliore offerta, riducendo drasticamente, in questo modo, i tempi di svolgimento della gara”, ricorda l’associazione.
Nell’intento di rendere “ancor più imprevedibile e difficilmente manipolabile” l’esito delle gare, Ance propone anche di prevedere “il sorteggio di quale dei tre algoritmi previsti debba essere utilizzato per la determinazione del ribasso di aggiudicazione”. Il tema riguarda l’individuazione delle cosiddette offerte anomale, ovvero quelle che in relazione al ribasso proposto dall’impresa vengono giudicate inadeguate a garantire un’efficiente realizzazione dell’opera. Una valutazione che viene fatta su base aritmetica, con l’applicazione di complessi calcoli che possono essere eseguiti con metodi diversi. Solitamente nei bandi viene anticipato quale metodo verrà adottato; Ance invece ritiene che tutto debba passare da un sorteggio.
Tra le buone pratiche incluse nel documento di Ance c’è anche quella di scorporare puntualmente i costi della manodopera dalla base d’asta delle gare su cui bisogna proporre i ribassi e inserire nei bandi di gara il premio di accelerazione per le imprese “ma solo nel caso in cui venga rispettata la data di ultimazione originaria fissata in contratto”.
L’ultimo punto riguarda i subappalti. Per l’associazione dei costruttori, bisogna far sì che “nel bando di gara, o nella lettera di invito” vengano specificate “quali sono le lavorazioni che non possono essere subappaltate e quelle che, pur subappaltabili, non potranno formare oggetto di ulteriore subappalto”.