PALERMO – Da una parte l’economia sommersa, l’insieme di evasione fiscale, lavoro in nero e illegale, che continuano a crescere, dall’altra la pressione fiscale, che tartassa coloro che vogliono vivere e lavorare onestamente. Una contraddizione solo superficiale, che la Sicilia vive in pieno.
Secondo i dati forniti dall’Istat ed elaborati dall’Ufficio studi della Cgia, l’associazione che si occupa di artigiani e piccole imprese, l’economia non osservata, sul totale del valore aggiunto, in Sicilia tocca ben il 17,30%. Con questi numeri, la Regione si pone al quarto posto in negativo. Peggio solo la Calabria, al 19,20%, la Campania, al 18%, e la Puglia, al 17,60%.
Se poi si guarda a quanto denaro viene a mancare all’Erario, la Sicilia segna oltre 14 miliardi di euro; in questo caso, in classifica nazionale la regione si pone al sesto posto, dietro alla Lombardia, che nonostante un sommerso di “solo” l’8,4%, andrebbe ad evadere circa 31 miliardi di euro. Quindi il Lazio, a quasi 21 miliardi, la Campania, a 18 milioni di euro, il Veneto, a 15 miliardi, insieme all’Emilia Romagna. In totale, in Italia l’economia non osservata sarebbe dell’11,7% sul valore aggiunto, per un totale di 192 miliardi di euro.
Che la situazione non sia florida per i siciliani lo dimostrano anche gli importi dichiarati in contabilità semplificata dai lavoratori autonomi siciliani: ci si ferma a quasi 24 mila euro per l’anno di imposta 2021, contro gli oltre 35 mila euro dei colleghi lombardi, ed una media nazionale che arriva a oltre 29 mila euro.
E in tutto questo, la pressione fiscale continua a crescere, soltanto su coloro che, nonostante la crisi e l’incertezza economica degli ultimi anni, continuano ad essere fedeli al fisco: nel 2023, secondo il ministero dell’Economia e delle finanze, la pressione fiscale ufficiale è stata del 42,5%; se si va a calcolare il Pil al netto dell’economia non osservata, la pressione fiscale reale sale al 47,4%. Se il valore ufficiale, dal 2011 ad oggi, è salito dell’0,3%, la pressione fiscale reale è aumentata dell’1,2%.
“Il nostro Pil – scrivono dalla Cgia – come del resto quello di molti altri Paesi dell’Unione europea, comprende anche gli effetti dell’economia non osservata il cui contributo alle casse dello Stato è per definizione nullo. Pertanto, alla luce del fatto che la pressione fiscale è data dal rapporto tra le entrate fiscali e il Pil, se da quest’ultimo storniamo la componente riconducibile al sommerso, il peso del fisco in capo ai contribuenti onesti sale inevitabilmente”.
Un dato che si scontra con il fatto che nel 2023 il prelievo fiscale è finalmente sceso: rispetto all’anno precedente la pressione fiscale è diminuita di 0,2 punti percentuali, grazie alla rimodulazione delle aliquote e degli scaglioni dell’Irpef e al modesto aumento del Pil.
“Tuttavia, è verosimile ritenere che la gran parte degli italiani – scrive la Cgia – non se ne sia accorta, poiché allo stesso tempo, è cresciuto il costo delle bollette, della Tari, dei ticket sanitari, dei pedaggi autostradali, dei servizi postali, dei trasporti. Insomma, se le tasse sono diminuite, il peso delle tariffe invece è salito creando un effetto discorsivo”.
In sintesi, i contribuenti non hanno potuto beneficiare pienamente della diminuzione della pressione fiscale e valutare una vera diminuzione della spesa perché, nel frattempo, sono aumentate le tariffe che, a differenza delle tasse, statisticamente non vengono incluse tra le voci che compongono le entrate fiscali”.