ROMA – Confiscare il patrimonio dei mafiosi. Togliergli i soldi, ma anche i beni immobiliari. È questo oggi il cuore, o almeno un’arteria importante, dell’antimafia. In Sicilia la questione non è sottovalutabile: il 39% dei beni confiscati in Italia si trova proprio nell’Isola. Palermo è prima nella top ten dei comuni destinatari, insieme a Partinico e Caltanissetta. Va da sé che un numero così vasto di immobili comporta notevoli difficoltà di gestione, inghippi e ritardi. Basti pensare che in Lombardia i beni totali trasferiti al patrimonio di Enti territoriali sono 1.303 su un totale di 1.687 destinati, mentre in Sicilia i trasferiti sono 6.396 su 8.242 destinati.
Sebbene, quindi, la percentuale di trasferimento dei beni tra Sicilia e Lombardia è tutto sommato simile, i valori assoluti dei beni a disposizione fanno una grande differenza nel risultato finale: è questo il motivo per cui molti, forse troppi, immobili nell’Isola risultano per parecchio tempo a “bagnomaria” come ha detto il presidente della Commissione Antimafia dell’Ars, Antonello Cracolici, nelle scorse settimane durante un convegno della Cgil.
Secondo i dati della relazione annuale 2022 dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia (Anbsc) presentati a settembre scorso, al 31 dicembre 2022 ci sono 22.074 beni immobili in gestione dell’Agenzia ed in totale sono 21.236 i beni destinati al riutilizzo: 17.183 di questi sono stati trasferiti al patrimonio di Enti territoriali, 12.042 dei quali con scopi sociali.
Tribunali, Anbsc, Comuni, Enti del Terzo settore, privati. Sono molteplici gli attori di questa partita contro i mafiosi. La differenza citata tra Lombardia e Sicilia, oltre a far emergere una differenza numerica di beni confiscati, denota come sia i modelli di gestione territoriali sia i necessari aiuti statali a Comuni spesso saturi ma ad alta concentrazione di beni – o meglio, parliamo di finanziamenti, come quello Pnrr che risulta “a mollo” – giocano un ruolo determinante nell’azione di contrasto che lo Stato svolge contro il fenomeno mafioso.
Azione di contrasto dello Stato che ci impone di fare un passo indietro, nella storia. Visto che, nei contorni di questa materia, si trova la geografia dell’antimafia. “La via della semplice repressione che non modifica l’humus economico, sociale e politico nel quale la mafia affonda le sue radici, non poteva portare a risultati definitivi”. Era il 1976 e queste parole del sindacalista e politico Pio La Torre avrebbero portato alla L. n.646/1982, la “Rognoni-La Torre” che introdusse nel codice penale italiano l’art. 416 bis, cioè il reato di associazione di stampo mafioso, prevedendo la confisca penale delle cose che “servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego” (art. 7). Fu poi nel 1996 – con una raccolta firme di Libera contro le mafie – che venne approvata la L.106/1996: i beni confiscati, in via prioritaria, devono prevedere un riutilizzo sociale. In parole semplici: devono diventare beni comuni.
Non è, però, niente di semplice a farsi: fatta la legge, politica e istituzioni devono mettere il massimo impegno per attuarla. Ogni bene ha una fattispecie diversa: si va dal terreno agricolo (in maggior numero) all’appartamento; dalla stalla, al garage o alla villa con piscina.
La grossa gatta da pelare si incontra nel momento in cui, in seguito alla destinazione da parte dell’Anbsc all’Ente territoriale, bisogna seguire l’iter di assegnazione alle associazioni del Terzo settore per il riutilizzo sociale degli immobili. “Nella nostra esperienza concreta di gestori di beni confiscati, talvolta, abbiamo constatato che nel momento in cui un bene giunge a confisca definitiva non viene prontamente assegnato per finalità sociali – racconta Francesco Citarda, presidente del Consorzio Libera Terra Mediterraneo – nell’attesa che si attuino tutte le procedure formali per il trasferimento del bene dall’Anbsc all’ente territoriale che decide di assumerlo nel proprio patrimonio. Questo a sua volta è tenuto a metterlo a bando pubblicamente per l’assegnazione”. Questo, a volte, è un momento critico dell’iter “Pur condividendo la necessità che tutte le procedure formali siano espletate correttamente – continua Citarda – è interesse collettivo trovare le modalità affinché i beni confiscati durante i tempi necessari a maturare tali passaggi non ricadano in stato di abbandono recando un danno sostanziale sia materiale sia in termini di credibilità da parte delle istituzioni”. Dalla stessa Libera Terra – capofila di questa filiera – viene d’altronde la promozione di una rete solida: “Questa criticità può essere superata impostando un confronto positivo con le istituzioni” dice Citarda – “sicuri che l’interesse comune debba essere quello di non dare segnali negativi alla comunità”.
C’è però, un’altra questione, sottolineata da Citarda: “Nel novembre 2017, grazie all’impegno di Libera, rispetto alle buone prassi instaurate dalle cooperative Libera Terra con alcuni tribunali delle misure di prevenzione, è stato modificato il codice unico antimafia prevedendo il riutilizzo sociale in via prioritaria anche dei beni sequestrati”, vale a dire che prima di arrivare alla sentenza di confisca di secondo grado, già al sequestro l’Ente deputato al riutilizzo può intervenire ma “Ad oggi, molto spesso, gli enti preposti alla gestione dei beni – spiega Citarda – in stato di sequestro scelgono, disattendendo il codice antimafia, di darli in affitto, affermando che tale prassi tutela il prevenuto nel caso in cui il bene dovesse essere dissequestrato. Non crediamo che ci sia malafede in questo, ma è la prova che non danno il giusto valore ai benefici che un virtuoso riutilizzo sociale può avere per una comunità. Beneficio collettivo che concretamente si traduce in occupazione di soggetti svantaggiati, valorizzazione delle migliori risorse presenti sul territorio, ed anche, da agricoltori quali siamo, nel dare valore alle tipicità locali facendo conoscere i territori dove operiamo anche per la qualità delle loro produzioni”. Libera Terra è un insieme di cooperative sociali ed agricole ma, seguendo questo filo logico, le criticità sollevate “si possono estendere a carattere generale su altre tipologie di bene” come dichiarato da Citarda.
Nella filiera dei beni confiscati alle mafie insistono molti soggetti, dalle istituzioni alle realtà giuridiche. Si tratta di burocrazia e regolamenti, ma soprattutto di politica. Politica perché un bene confiscato diventa a tutti gli effetti un bene pubblico, rientra quindi nella res publica. Ma fattivamente, chi e come si interviene sull’immobile dopo la fase della confisca? Ne abbiamo parlato con Tatiana Giannone, referente nazionale dei beni confiscati di Libera – Associazioni nomi e numeri contro le mafie.
Parliamo della gestione: cosa accade dopo la confisca vera e propria?
“La prima fase è quella del sequestro che parte con le inchieste. La confisca segue, poi, i gradi di giudizio: la confisca di primo grado è legata alla sentenza di primo grado, poi c’è il secondo grado e dopo la confisca può diventare definitiva. In caso di ricorso alla Corte di Cassazione – quindi in attesa del giudizio di merito – il bene ricomincia il percorso. La Cassazione può confermare la sentenza e renderla definitiva oppure rimandarla indietro: quindi si ricomincia. Questo, in brevissimo, è l’iter. I soggetti che intervengono in questa filiera sono il tribunale con l’amministratore giudiziario fino alla sentenza di secondo grado, poi il bene passa nella gestione dell’Agenzia nazionale che a sua volta nomina un coadiutore – un amministratore anche lui – nel 99% dei casi si conferma lo stesso amministratore per una questione di conoscenza, ma non c’è un obbligo di conferma. Quando si arriva alla confisca definitiva, l’Agenzia nazionale attraverso una manifestazione di interessi e il lavoro con le prefetture e i governi territoriali, trasferisce questo bene all’amministrazione statale: al livello nazionale o locale – ministero o Ente locale di prossimità dal Comune in su -. Il bene così diventa bene pubblico, nel senso che diventa un bene inserito nel patrimonio pubblico e erariale dello Stato o al livello nazionale o locale, ed in quest’ultimo caso può essere fatto un bando pubblico per assegnazione a soggetti del terzo settore – che non vuol dire un trasferimento di proprietà, il bene rimane sempre un bene pubblico ma diventa un contratto di comodato d’uso gratuito -. La realtà assegnataria può averlo, così, in gestione per un tot di anni e realizzarci le sue attività”.
Questo iter vale anche per le attività aziendali confiscate?
“L’attenzione che dobbiamo fare quando leggiamo i numeri sulle aziende, soprattutto su quelle che sono ancora in gestione presso l’Agenzia nazionale, è che non tutte queste aziende – quasi 3000 – sono effettivamente presidi economici nel senso che a volte si tratta di aziende aperte con la funzione di cartiera – cioè di riciclaggio dei proventi illeciti – che quindi non hanno effettivamente un circolo economico a sostenerle e a volte addirittura non hanno nemmeno lavoratori o lavoratrici a sostenerle, ma sono semplicemente dei modi di far girare fatture e denaro. Le attività aziendali hanno delle differenze dopo la confisca, però: possono essere vendute o liquidate, a seconda dello stato patrimoniale. Un’attività di facciata deve essere liquidata e mandata in fallimento; può essere però anche venduta o data in affitto ad una cooperativa fondata dalle stesse lavoratrici e dai lavoratori dell’azienda: è una modalità che noi promuoviamo e si chiama “workers by out”, dove i lavoratori in questo caso a partire dal loro tfr, che è il loro capitale, mettono i fondi e rilevano l’azienda. I casi più eclatanti sono in Sicilia, con la Calcestruzzi Ericina Libera”.
Tra destinazione e assegnazione, spesso però si entra in un limbo: per anni molti beni rimangono bloccati. Qual è l’inghippo?
“Questo è uno dei grandi temi legati al mondo della confisca e del riutilizzo. Per Libera è importante mantenere un equilibrio: la filiera della confisca e del riutilizzo è molto complicata ed è importante non colpevolizzare nessuno dei soggetti affinché questa filiera funzioni con equilibrio. I Comuni non destinano per infinite ragioni: in alcuni casi per malafede. Lo sappiamo: abbiamo dei racconti territoriali, con i nostri presidi seguiamo delle vicende territoriali e le denunciamo, le accompagniamo e lavoriamo su questo. Ci sono dei casi in cui il Comune fa dei passi indietro: ci sono capitati, non solo nel Sud. Il problema non lo immagino con una definizione territoriale. Accade anche al Nord ed è legato, a seconda dei territori, a tantissime cose diverse. Quello che possiamo fare noi come società civile e che facciamo come Libera è mantenere alta l’attenzione il più possibile sin dalla prima confisca: più la cittadinanza è consapevole più è possibile che accada qualcosa di positivo. Del resto, va di pari passo con l’idea che ormai è definita: non parliamo più infiltrazioni mafiose al nord ma di radicamento di infiltrazioni mafiose al nord per cui parlare di radicamento anziché di infiltrazioni ci dà l’idea di organizzazioni criminali di stampo mafioso che si sono radicate nei contesti in cui vivono e in cui crescono e quindi hanno rapporti stabili con il mondo dell’economia e della politica. Altri Comuni, invece – soprattutto quelli di piccole dimensioni nelle aree interne – non sempre hanno le capacità professionali e progettuali di gestire la fase di assegnazione di un bene che magari ha anche degli abusi da sanare. In questi casi il Comune dovrebbe partecipare ad un bando – Pnrr o fondi Ue Fesr ad esempio – oppure formare consorzi di Comuni (nel caso delle piccole realtà) per condividere le procedure. E’ importantissimo, poi, il ruolo dell’Agenzia nazionale – di raccordo tra il bene al livello nazionale e il territorio – nel far arrivare al Comune il bene più libero possibile da criticità, con gli eventuali abusi sanati”.
Qual è l’apporto dell’Agenzia Nazionale nel caso di abusi da sanare?
“L’Agenzia ovviamente non ha fondi per la ristrutturazione e non ristruttura beni confiscati, sarebbe impossibile farlo perché un’Agenzia non può gestire 30mila beni. Quello che può fare è monitorare lo stato dei beni e fornire una descrizione specifica provando a risolvere alcune criticità: penso a quelle di tipo economico, legate a ipoteche, mutui bancari, creditori in buona fede. Così come può aiutare il Comune nell’espletamento delle pratiche per sanare gli abusi, quello sì, lo può fare. E negli ultimi anni stanno lavorando molto su questo con incontri preparatori coi Comuni. Negli ultimi anni le procedure di assegnazione sono più veloci, questo significa che è molto raro che un bene sia fermo per dieci anni come succedeva una volta. Leggiamo un dato positivo che, però, va stressato per andare avanti. Non possiamo arretrare in alcun modo”.
Attorno alla confisca dei beni c’è un mondo di regolamenti e leggi, ma anche di scelte politiche: a che punto siamo?
“Occuparsi di beni confiscati e del riutilizzo è una questione politica forte perché significa occuparsi intanto di beni pubblici ma ancora di più di beni pubblici sottratti alle mafie. Ed è una questione politica forte anche a livello locale. Quando noi chiediamo alle singole amministrazioni comunali di pubblicare la lista dei beni o di pubblicare il regolamento sui beni, non stiamo chiedendo solo una cosa burocratica ma un impegno politico forte. Non basta avere un regolamento perfetto se poi non si agisce. A livello nazionale, siamo in un momento molto delicato in cui l’attenzione delle forze politiche – o almeno di una parte – non sembra andare nella nostra direzione. L’annuncio dello stralcio dei fondi Pnrr vuol dire togliere non poche risorse alla valorizzazione di questi beni. Vogliamo alzare l’attenzione sul tema: non bastano proclami e non basta dire ‘siamo tutti contro le mafie’ – spero questo sia scontato per tutti – ma occorre fare seguito a queste parole. Alcuni Comuni hanno iniziato a spendere le risorse Pnrr non sapendo come finirà questa storia. Non ci sono documenti ufficiali ma solo confusione”.