In Sicilia esistono 23 opere di inestimabile valore che il Decreto assessoriale n.1771 del 27 giugno 2013 afferma di voler proteggere, di voler “rendere particolarmente inamovibili”. Ieri abbiamo visto come una deroga, in realtà, allenti le maglie dei prestiti, in barba agli slogan sulla valorizzazione del patrimonio artistico e culturale. E lo fa senza considerare il parere dei professionisti di competenza, ma affidando alla classe politica la delicata decisione squisitamente tecnica della possibilità di un’opera di essere trasportata in giro per il mondo. Allora abbiamo voluto dare noi la parola ai tecnici. Oggi Silvia Mazza – storica dell’arte e firma de “Il Giornale dell’Architettura” – e Claudio Paterna – membro del Registro delle Eredità Immateriali della Sicilia – spiegano in un’intervista esclusiva al QdS le origini di questa legge e come poter mettere a frutto l’immenso patrimonio dell’Isol, senza dimenticarsi della sua tutela. Invece si resta ancora in attesa di una risposta da parte dell’assessorato ai Beni culturali e all’Identità siciliana, attualmente presieduto dal leghista Alberto Samonà.
Dott.ssa Mazza, il decreto del 2013 riesce effettivamente a salvaguardare i nostri beni più fragili?
“Il cosiddetto ‘decreto blinda prestiti‘, non nasce per tutelare opere particolarmente fragili. Basta scorrere l’elenco per riscontrare che non sia così: penso alla Phiale di Caltavuturo in gran forma o agli Argenti di Morgantina che sono così inamovibili da poter essere spediti, secondo uno scriteriato accordo culturale, ogni quattro anni alla volta del Met di New York. Invece, fu scritto in occasione del contenzioso sorto tra la Regione siciliana e alcuni musei statunitensi, per chiudere i rubinetti del prestito facile per una ristretta lista di 23 beni, riconosciuti come ‘risorsa essenziale delle azioni di valorizzazione del patrimonio culturale in Sicilia’. O almeno così si disse allora. In realtà, non fa altro che allentare le maglie proprio per quella ristretta lista di beni identificativi della Regione. Grazie, infatti, a una deroga (art. 4) sposta la valutazione di questioni specialistiche dai tecnici alla Giunta di governo, consentendo a quest’ultima piena libertà di movimento, a prescindere dalle questioni di opportunità sollevate dai primi. È già avvenuto di recente. Nel 2016, in tempi insolitamente rapidissimi, la Giunta fornì parere positivo al prestito dell’Annunciata di Antonello da Messina, della Galleria Regionale di Palazzo Abatellis a Palermo. Contro il parere negativo dell’allora direttore del museo, fu dato l’ok al prestito alla volta di una dubbia mostra (Mater) di una dubbia Fondazione milanese, tanto che i Musei Vaticani avevano ritirato le opere in un primo momento concesse in prestito alla prima tappa dell’evento espositivo a Parma, come ci disse l’allora direttore Antonio Paolucci. La seconda tappa della mostra a Torino alla fine saltò e non ci fu più bisogno di prestare il dipinto, ma dalla Sicilia, intanto, il via libera lo si era dato senza batter ciglio. Grazie alla deroga prevista dal decreto che rimette alla discrezionalità di assessori come quelli alla Salute, alla Famiglia o dell’Agricoltura, di stabilire se una fragile pellicola pittorica possa affrontare un viaggio”.
Dunque l’autonomia regionale potrebbe essere un limite per la salvaguardia del nostro patrimonio culturale? Come funziona nelle altre regioni?
“Prendiamo il dibattuto prestito del disegno di Leonardo al Louvre, che rientra nella lista di opere che appartengono al fondo principale delle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Nella seduta del 24 luglio scorso il Consiglio Superiore dei Beni culturali e Paesaggistici ha proprio evidenziato come ‘in materia di prestiti dei beni culturali dei musei per mostre o esposizioni sul territorio nazionale o all’estero, sono auspicabili’, oltre a ‘un maggior coordinamento tra le Direzioni generali competenti’, ‘riunioni congiunte dei Comitati tecnico-scientifici per le belle arti, per i musei e per l’archeologia’. Il Comitato tecnico scientifico per le Belle arti, presieduto da Tomaso Montanari, espresse parere negativo. Anche il funzionario responsabile del Gabinetto Disegni e Stampe delle Gallerie espresse un parere avverso, per ragioni di opportunità conservativa. Sono, dunque, i tecnici, a essersi espressi, al netto della decisione della politica di tenerne conto o meno. Alla fine, il Leonardo volò al Louvre. Ma il punto è un altro. La Sicilia è l’unica regione italiana in cui l’interferenza della politica sulle decisione degli specialisti non solo è la regola, ma è una regola stabilita proprio giuridicamente, contro il Codice e contro il principio dell’ordinamento giuridico, per cui gli uffici pubblici si distinguono in organi di indirizzo e controllo da un lato, e di attuazione e gestione dall’altro.Certo, anche qui si applica il Codice, e competenza legislativa primaria non significa non poter rivedere o modificare norme contraddittorie come questo decreto del 2013, già di per sé altamente discutibile. Oltre che scritto male: laddove indica l’articolo 67, in luogo del 66. Un decreto rimasto per ben sei anni senza che fossero disciplinate le procedure. Ci ha pensato, poi, il ‘Decreto Tusa’ del 2019, una norma, peraltro, ‘opaca’ che andrebbe decisamente rivista, come ho spiegato su ‘Finestresull’arte’. Quello che appare evidente, però, è che l’autonomia così intesa ha consentito alla Sicilia di stabilire il primato della politica sulle questioni tecniche. Se l’autonomia partorisce un mostro, genera il far west”.
Ma come mai le nostre opere non godono del successo che meriterebbero? Cosa suggerirebbe al governo regionale?
“Perché si tratta di opere fondamentalmente dimenticate di cui ci si ricorda solo in occasione di una richiesta di prestito da parte di qualche museo extra regionale. Si dovrebbe, invece, ripensare all’individuazione di queste 23 opere selezionate nell’immenso patrimonio regionale, superando la logica del ‘divieto’ (comunque, ridimensionato, come già detto), per adottare una strategia progettuale di valorizzazione, aderente alle peculiarità locali, ma avendo chiara la dimensione regionale di riferimento. Serve, in altre parole, passare da una visione statica a una dinamica, facendo di questi ‘gioielli’ dei veri e propri detonatori di sviluppo del territorio. E par fare questo non può bastare ragionare in termini di sola politica culturale. Quest’ultima, infatti, dovrebbe raccordarsi con gli orientamenti programmatici delle altre politiche che si occupano delle infrastrutture, della pianificazione, dei lavori pubblici, della tutela dell’ambiente, del turismo, della formazione, e, naturalmente, dell’economia. Perché ogni politica culturale implica una politica economica, senza che ciò debba comportare gretta mercificazione. Per inciso, e più in generale, se i beni culturali debbano sempre essere raccordati in un quadro unitario di progetto, si comprende come a poco serva discutere se sia più valido l’accorpamento Beni culturali – Turismo (Letta), Beni culturali – Agricoltura (Governo giallo-verde) o Beni culturali – Ambiente (Montanari), e di nuovo Beni culturali – Turismo (Franceschini). Ci si ostina a trovare formule binarie, a inventarsi appesantite istituzioni bicefale, quando si potrebbero trovare strumenti più flessibili, come tavoli permanenti di concertazione inter ministeriali, documenti d’intese programmatiche. Il discorso resta valido a livello regionale, sostituendo in questo ragionamento ai Ministeri i corrispondenti assessorati regionali. Per ognuno di questi 23 beni andrebbero messe in atto azioni di concertazione di questo tipo per costruire, insieme anche agli attori locali, dalle istituzioni al mondo associazionistico, altrettante tappe di un nuovo ‘Grand Tour in Sicilia’”.
Anche per Claudio Paterna – etnoantropologo, ex allievo degli illustri Bonomo, Rigoli e Buttitta, docente di Storia e Filosofia, laureato in Filosofia e specializzato in Educazione permanente, ex direttore della Casa Museo Verga e del servizio storico-artistico alla Soprintendenza di Enna, nonché giornalista pubblicista e attuale membro della commissione del Reis (il Registro delle Eredità Immateriali della Sicilia) – le opere dovrebbero rimanere nei loro luoghi di collocamento. E bisognerebbe prestare attenzione pure a “nuove” questioni.
“Il decreto assessoriale del 2013 nasce, in realtà, perché Siracusa non voleva cedere al Palazzo Abatellis di Palermo un’opera di Antonello da Messina. L’idea di un Tour siciliano – ovvero di far girare continuamente opere fragili – non credo sia perseguibile: tralasciando il fatto che alcuni beni possano non essere nelle condizioni di essere trasportati, gli altri certamente subirebbero uno stress pericoloso per la loro salvaguardia. Fermo restando che esistono dei restauri mirati al trasporto – e che ogni direttore di museo conosce lo stato delle opere di cui è responsabile – questo potrebbe avvenire eccezionalmente, non certo con frequenza. Si potrebbero, però, individuare altre strade per la valorizzazione del nostro patrimonio: tutti gli spazi museali potrebbero ospitare frequentemente eventi e attività culturali di vario genere. Penso ai saggi di teatro, di musica, di cinema. E anche alle mostre collaterali di arte contemporanea. Lo stop ‘obbligatorio’ imposto dal Covid avrebbe potuto rappresentare il momento migliore per programmare il futuro. Per esempio, ogni museo avrebbe potuto utilizzare i mezzi telematici – anche con l’ausilio di personale esterno – per produrre video e prodotti informatici da pubblicizzare, per farsi conoscere in tutto il mondo”, spiega l’esperto.
In essenza di un programma completo, dettagliato, strategico e ben definito, qualsiasi rilancio delle opere potrebbe non sortire l’effetto sperato: “La questione della gestione e della promozione del patrimonio artistico e culturale è complessa. Da una parte ci sono i vertici, ovvero i direttori dei musei, che conoscono le condizioni effettive delle opere che ospitano, del proprio personale, della sicurezza dei propri locali, ma che troppo spesso continuano a nutrire una concezione elitaria dell’arte. Insomma, per loro forma mentis, puntano molto sulla conservazione del patrimonio e ben poco sulla sua fruizione. Però, qualora volessero attivarsi per la sua promozione, dovrebbero comunque chiedere autorizzazione e finanziamenti all’assessorato ai Beni culturali, risolvere le continue problematiche sollevate dai sindacati (sugli impianti di sicurezza, sull’inquadramento del personale negli organici, sullo stato dei depositi) – continua Paterna -. Dall’altra parte, invece, la Regione continua a inserire nel proprio bilancio incentivi a pioggia per la dirigenza e il personale, senza curarsi delle effettive responsabilità civili e penali dei titolari di Rup. E taglia i fondi per i servizi museali di fruizione. Se si cominciasse a erogare incentivi solo ai dirigenti che volessero assumersi la responsabilità diretta di presentare progetti finanziabili con fondi Ue, la realtà sarebbe molto diversa. Faremmo a meno di tornare al mittente preziose risorse e i nostri musei godrebbero di maggior successo”.
In passato ci siamo già occupati del patrimonio “sommerso” di grande valore custodito in Sicilia non sempre in adeguate condizioni e, talvolta, nemmeno inventariato. Di recente l’assessore Alberto Samonà ha dichiarato l’intenzione di ampliare e valorizzare parte delle opere non fruibili. Il primo passo è stato quello di acquisire l’ex Stazione di Buonfornello per aumentare gli spazi espositivi dell’attuale Museo Pirro Marconi e per valorizzare la complessiva offerta turistico-culturale dell’Area archeologica di Himera, vicina ai centri turistici di Cefalù e delle Madonie. L’iniziativa, portata a buon fine dopo l’inaugurazione del Museo di Francavilla di Sicilia e del Lapidarium di Alaesa, è stata accolta con entusiasmo dall’intero comparto. Ma lo stesso Claudio Paterna auspica interventi strutturali che potrebbero salvaguardare beni a cui non si dedica alcuna attenzione.
“Nei depositi nessuno sa cosa ci sia, perché nessuno vi può accedere, se non su autorizzazione dell’assessore, del presidente della Regione, del direttore del Museo o del soprintendente. Lo stesso vale per gli antiquaria, ovvero quei depositi nei pressi delle zone archeologiche. Tutto questo materiale va subito catalogato, pulito e sistemato per evitare pericolosi furti e impedire che vada ulteriormente in rovina – conclude Paterna -. Anche i depositi delle diocesi andrebbero controllati. Non tutti i beni di proprietà della Chiesa sono custoditi in modo appropriato. Ed esiste una convenzione secondo la quale sono comunque vincolati al Codice dei beni culturali. Penso, per esempio, a una chiesa sconsacrata dove ho trovato centinaia di statue in condizioni deleterie, alla mercé dei ladri”.