Una moto riparata male, ladri troppo intraprendenti, il sospetto di essere coinvolto nell’arresto del boss catanese Nitto Santapaola. Il fiume di sangue che ha bagnato negli anni Novanta l’hinterland di Barcellona Pozzo di Gotto, per mano della locale famiglia mafiosa, poteva trovare affluenti nei pretesti più diversi con l’effetto di ingrossare la paura di chi viveva nei centri dell’area tirrenica del Messinese. A scrivere nuove pagine della storia di Cosa nostra sono stati i collaboratori di giustizia che, da anni, sviscerano vicende che li hanno visti protagonisti.
Da Carmelo D’Amico a Carmelo Bisognano, fino a Salvatore Micale, la cui decisione di dare il proprio contributo allo Stato risale a marzo dell’anno scorso, poco dopo avere ricevuto una condanna a trent’anni per un assassinio. Di omicidi, nell’ultima inchiesta della Dda di Messina che ieri ha portato alla notifica di sette nuove misure cautelari nei confronti di soggetti che in più di un caso si trovano già detenuti, ne vengono ricostruiti una decina.
Le mani legate dietro la schiena, i corpi quasi di fronte. Antonino Accetta e Giuseppe Pirri vennero ritrovati così la mattina del 20 gennaio 1992. I cadaveri si trovavano all’interno del cimitero di Barcellona Pozzo di Gotto. A indirizzare gli agenti era stata la telefonata di un uomo che, senza fornire indicazioni sulla propria identità, aveva specificato che – per chi fosse interessato – ai ladri dei vecchietti poteva tornare utile fare un giro al camposanto.
L’informatore non sarebbe stato uno qualunque, ma Giuseppe Isgrò, all’epoca 27enne e successivamente condannato per l’appartenenza alla mafia barcellonese. L’uomo, che oggi ha 58 anni, la scorsa primavera è stato scarcerato dopo una lunga detenzione. Per il collaboratore Carmelo D’Amico, che si è autoaccusato dei delitti Accetta e Pirri, Isgrò sarebbe stato soltanto uno dei componenti del plotone d’esecuzione di cui avrebbero fatto parte tra gli altri anche Giuseppe Gullotti, all’epoca a capo di uno dei gruppi mafiosi più violenti.
All’origine della decisione di uccidere le due vittime, entrambi attivi nel sottobosco della microcriminalità e dello spaccio, ci sarebbe stata la volontà di punirli per avere rapinato due anziani. Fratello e sorella, erano stati immobilizzati in casa e derubati della pensione prelevata il giorno precedente. “Furti e rapine non dovevano essere commessi senza il benestare dell’organizzazione”, ha dichiarato D’Amico ai magistrati.
L’immagine di una mafia capace di porsi come giudice e quasi freno alle minacce di turbamento della tranquillità di chi non è coinvolto negli affari criminali, nelle faide che periodicamente rischiano di esplodere, è smentita dai racconti di Salvatore Micale, l’ultimo collaboratore di giustizia legato ai barcellonesi. L’uomo ha raccontato ai magistrati che, in precedenza, assieme a D’Amico e a un altro uomo, avevano tentato “in un’occasione di effettuare un furto presso la loro abitazione. Il piano fallì perché i vecchietti appena entrammo si misero a urlare”.
Tra gli omicidi commessi a Barcellona negli anni Novanta ci sono quelli di Aurelio Anastasi, ucciso il 4 gennaio ’93, e Giuseppe Abbate, ammazzato il 16 febbraio del ’98. I due delitti, pur non essendo legati tra loro, hanno tratti in comune: le vittime – il primo un meccanico, il secondo un macellaio – sono stati assassinati a colpi di arma da fuoco all’interno dei luoghi in cui lavoravano. In entrambi i casi, il coinvolgimento di Cosa nostra non sarebbe stato diretto ma ciò, in un certo senso, contribuisce a rilasciare la fotografia di una cittadina in cui la violenza era praticamente all’ordine del giorno.
Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti nel blitz contro i Barcellonesi, sulla scorta anche in questo caso delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, Anastasi sarebbe stato ucciso da due uomini, di cui uno insoddisfatto per le riparazioni effettuate dalla vittima – al costo di 350mila lire – sulla propria motocicletta. Abbate, invece, avrebbe pagato precedenti dissapori con un socio – Nicola Cannone, arrestato – che lo avrebbe atteso all’orario di chiusura della macelleria sparando sotto lo sguardo di un bambino, il figlio della vittima.
Fortunato Ficarra, assassinato nel territorio di Santa Lucia del Mela nell’estate del ’98, pochi giorni prima che l’Italia scendesse in campo contro la Francia nei quarti di finale del mondiale, avrebbe pagato i comportamenti inappropriati – soprattutto nei confronti di donne – di cui era solito rendersi protagonista quando si ubriacava. Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, l’uomo sarebbe stato ucciso su richiesta del titolare di un bar che, in cambio della cessione di gioielli, aveva chiesto alla cosca mafiosa di liberarsi di quell’avventore eccessivamente molesto.
Tra i dieci delitti al centro dell’inchiesta c’è anche quello di Angelo Ferro. L’uomo, assassinato a Milazzo nel maggio del ’93, era stato sorpreso dai killer mentre, con l’auto, accompagnava la figlia a scuola. Il collaboratore Carmelo D’Amico, che nel corso degli anni si è autoaccusato di una trentina di omicidi contribuendo a ricostruirne il doppio, ha detto ai magistrati di avere agito assieme a un complice a bordo di una moto di piccola cilindrata.
“A un tratto vidi Ferro transitare dalla traversa dove abitava con una macchina di colore scuro, assieme alla figlia – ha messo a verbale D’Amico – Abbiamo affiancato il mezzo dal lato guidatore e, proprio per evitare di colpire la figlia, ho sparato a distanza ravvicinata, quasi a bruciapelo, all’indirizzo della testa di Ferro”. Dopo i primi colpi, l’auto sbanda e va a sbattere contro un albero. Pochi istanti dopo, D’Amico conclude l’esecuzione: “La figlia si acquattò all’interno dell’auto, io mi sono appoggiato e ho scaricato all’indirizzo della testa circa sei colpi”, ha specificato D’Amico.
L’omicidio Ferro è l’unico con un movente che rimanda alla geopolitica interna a Cosa nostra. D’Amico, infatti, ha detto che la vittima – perito che lavorava nella Condotta Agraria di Milazzo – era sospettato di avere avuto un ruolo nell’arresto di Nitto Santapaola, avvenuto poco più di una settimana prima e la cui latitanza per lungo tempo aveva beneficiato del contribuito offerto dai Barcellonesi. Dal canto suo, Ferro era ritenuto dagli inquirenti contiguo agli affari della criminalità organizzata. Poche ore il delitto, il dirigente dell’ufficio in cui la vittima lavorava raccontò agli investigatori che Ferro si era rifiutato di firmare un documento di condanna di Cosa nostra, in occasione del primo anniversario della strage di Capaci, ritenendo quella proposta simile al chiedere a un musulmano di mangiare maiale.
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