Cultura

Coronavirus e teatro, il regista Macaluso racconta l’emergenza

Il Teatro Zeta, fondato dall’attore, regista e drammaturgo Piero Macaluso, è uno dei tanti teatri fortemente penalizzati dalla pandemia. Dopo la chiusura al pubblico a fine febbraio e per l’intera seconda parte di stagione, nonostante le difficoltà ha riaperto, seguendo le norme di prevenzione anticovid, con due spettacoli ad ottobre e novembre, “La Patente” di Pirandello e “Riccardino III”, una drammaturgia di Macaluso tratta da Shakespeare e dall’ispirazione della lettura della versione di Carmelo Bene.

Piero Macaluso

Ci troviamo nella ex chiesa di Santa Lucia, a Termini Imerese, edificio adibito a spazio teatrale. Alla domanda “come ne uscirà il teatro da questa pandemia”, il fondatore del Teatro Zeta risponde che questo è un tempo sospeso: «Nemmeno durante le guerre mondiali lo spettacolo dal vivo aveva subito un tale fermo, ed è tutto ancora da capire perché nuovo».

Macaluso, che propone di chiamare il nuovo cartellone “La stagione perduta”, ripartirà dalla poesia. In queste settimane sta preparando “Thumos”, un lavoro di musica e poesia, con alcuni suoi scritti inediti. «È ormai riconosciuto da tutti che il settore più colpito è quello dello spettacolo dal vivo – commenta il drammaturgo – In Italia, per ragioni storiche, il teatro ha avuto uno sviluppo diverso rispetto agli altri paesi Europei, ma questo non le ha impedito di avere grandi artisti e maestri nel campo della creazione scenica e attoriale e in passato una stagione di teatro d’avanguardia che ha lasciato importanti segni dei cui frutti ancora oggi si avvale la scena contemporanea».

Purtroppo, secondo Macaluso, a questo non si è affiancato, da parte dei legislatori, un’apertura mentale tale da riconoscere la diversità e l’eterogeneità del settore e il suo ruolo fondamentale e strategico in una società che vuole chiamarsi civile e socialmente matura. «Per questo motivo – aggiunge – ho la sensazione che gli aiuti economici, in questo momento storico giusti e doverosi, siano serviti più a mantenere in vita un settore in perenne difficoltà, a coprire buchi di bilancio di grandi teatri e di fondazioni e pochissimo sia arrivato agli attori, alle maestranze, a quella rete di piccoli teatri e spazi teatrali che sono spesso dei presìdi su territori culturalmente depressi, dove nasce e prospera la sperimentazione artistica, dove si forgiano le nuove generazioni, e quasi nulla si stia investendo per un nuovo inizio con delle logiche diverse».

Per l’attore si sta perdendo l’occasione di fare di questo disastro culturale un’opportunità di rinascita. Sul connubio teatro-nuove tecnologie, Macaluso commenta: «La possibilità che la tecnologia ci offre è immensa e trovo sia giusto sperimentare nuove forme di comunicazione linguistica. Ho ritenuto opportuno non seguire questa strada perché, pur nella difficoltà, ho voluto e voglio mantenere fede alla poetica del mio lavoro, linea guida del Teatro Zeta, cioè quell’aspetto che motiva ogni giorno l’attore, il regista, il drammaturgo, cioè il dialogo con un altro essere presente e pensante con i suoi dubbi e sensazioni, le emozioni che circolano, di cui l’attore si nutre, il sudore e la fatica dei corpi sul palco, perché – conclude – l’evento teatrale lo si fa insieme e noi tutti siamo teatro nel momento in cui accade».

Dopo quarant’anni di esperienza teatrale, come attore, regista e drammaturgo per Macaluso la funzione sociale del teatro non deve essere solo quella della crescita sociale in termini di insegnamenti, che non si ottiene solo con la pedagogia ma anche e soprattutto con l’educazione alle emozioni.

«Se ogni giovane sapesse che a teatro può provare, anche da seduto e senza effetti speciali del cinema, delle emozioni vere, indimenticabili, e potesse scoprire di essere capace di portarsi questo nella vita di tutti i giorni, credo che ogni giovane farebbe dell’andare a teatro una buona abitudine e nella vita sarebbe potenzialmente un uomo e una donna migliore».

Tra le centinaia di artiste che stanno vivendo un periodo di grande difficoltà anche Liliana Sinagra, una delle prime allieve della scuola triennale di teatro contemporaneo ideata e diretta da Macaluso. «Siamo stati privati del nostro lavoro – dice Sinagra – Il teatro lo vivi nel momento stesso in cui lo si realizza, il nostro spesso è pensato per una relazione più diretta con lo spettatore, molto intima e diversa per ognuno di loro».

Liliana Sinagra

 Il Teatro Zeta ha una peculiarità, ogni spettatore ha il suo punto di vista, in senso fisico, geografico rispetto alle scene. Non ha il tempo di abituarsi alla sua posizione che è costretto a spostarsi per trovarne un’altra. Questa continua interazione fissa maggiormente le emozioni che uno spettacolo teatrale suscita in ogni spettatore.

«Il dialogo con lo spettatore è mancato – aggiunge l’attrice – senza l’apertura dei teatri noi non abbiamo possibilità di esistere in nessun modo che possa definirsi teatro. Prima di approdare nel teatro termitano, la ragazza aveva fatto esperienze su palchi amatoriali con il teatro dialettale, partecipando anche a rassegne, e svolto uno stage sul teatro dell’oppresso.

«Durante questa pandemia il Teatro Zeta, come impegno sociale, ha realizzato un progetto per il 25 novembre giornata internazionale per la lotta contro il femminicidio, ha visto i propri attori prestarsi all’obiettivo di una fotografa per realizzare un book fotografico per sensibilizzare al dramma che affligge questa nostra società».

Il periodo di pandemia Liliana lo ha trascorso “alla ricerca della continuità con la vita che si è interrotta, sul palco e di tutti i giorni”. Molti gli incontri on-line seguiti, gli approcci con i colleghi del Teatro Zeta e i tentativi di rimanere connessi con quello spazio artistico: «Ma non eravamo là, gli sguardi erano filtrati dalla luce di uno schermo, i piedi non calcavano il palco e la mente era un po’ frastornata – sottolinea l’attrice – Ho dedicato il tempo alla formazione, allo studio, guardando anche tanti spettacoli teatrali dei giganti del teatro, ovviamente in tv. Ho scritto due brevi racconti di cui non so bene ancora cosa ne farò».

Nonostante i lunghi periodi di chiusura, l’artista ringrazia il Governo per il brevevissimo intervallo di riapertura dei teatri: «Abbiamo fatto un gran sospiro di sollievo, creduto per pochissimo di poter finalmente programmare, abbiamo lavorato persino a progetti a breve termine, un’illusione durata poco». Questa pandemia, però, secondo l’attrice: «Ha dimostrato, o semplicemente confermato, quanto la cultura abbia un ruolo marginale in questa nostra società e per chi ci governa. Nessun teatro può essere sovraffollato, già nella vita di sempre i posti sono limitati e godere di uno spettacolo teatrale richiede di per sé un certo rigore, che è stato accentuato dalle misure anti Covid, ma questo pare non l’abbia notato nessuno perché l’attenzione è tutta rivolta ad altri fronti».

Incuriosita dal connubio teatro-nuove tecnologie, al netto degli incontri formativi tenuti dai grandi nomi, crede che tutto il resto non si possa chiamare teatro. «Il teatro è qualcosa che vivi nell’istante stesso in cui avviene, è la vita raccontata in un secondo, è il sudore della fronte che ti scende che vorresti fermare e che continua ad andare giù e non puoi asciugare. Ho visto proporre abbonamenti per visionare monologhi a 6 euro al mese, lezioni tra le più strampalate, tutti tentativi per sopravvivere a questo momento illudendosi di fare teatro».

Mario Catalano