Cronaca

Da “educatrici” a “signore della mafia”, le donne di Cosa nostra

Giovanni Falcone, nel suo libro “Cose di Cosa Nostra” scritto con Marcelle Padovani, indicò che “L’unica donna veramente importante per un mafioso è e deve essere la madre dei suoi figli”. Le disparità di genere, finora, sono state studiate soprattutto come fenomeno politico e sociologico, non tanto quanto effetto criminologico, dando per scontato che non vi fosse alcun rapporto tra la presenza delle molteplici forme di criminalità organizzata radicate ormai nel Sud del Paese, la condizione delle donne in quelle regioni e il loro potenziale ruolo nella mafia.

In realtà, e non può essere sottovalutato, alle donne, moglie e madri, da sempre è affidato il ruolo dell’educazione della prole perché la famiglia mafiosa è intrinsecamente strutturata sulle assenze maschili.

Donne e mafia, storie e profili

È impossibile tipizzare le donne appartenenti alle famiglie mafiose. Ognuna di esse ha una propria storia e non si può correre il rischio di generalizzare. Ci sono le collaboratrici giustizia, che sono fondamentali come nel caso di Ostia o nelle indagini sui Casamonica o le testimoni di giustizia e le donne componenti di strutture di mafie autoctone, ad esempio Azzurra Fasciani.

In realtà, ci sono anche donne imprenditrici in rapporto con la criminalità organizzata: in questo contesto, troviamo figure apicali, come nei procedimenti per le indagini sulle petrol-mafie e la gestione del denaro proveniente dalle organizzazioni camorristiche. Ci sono donne attive nello spaccio di stupefacenti, nella gestione dell’usura e nelle intestazioni fittizie. Donne che osteggiano la collaborazione degli uomini con le autorità e donne che la facilitano. Donne d’onore, donne vendicatrici, donne vittime della spietata mano mafiosa e donne rimaste nell’ombra della struttura arcaica delle famiglie.

Ma non solo. Ci sono casi, come quello di Margherita Teresi – la moglie di Stefano Bontate, che affermò di essere orgogliosa di essere stata sposata con un grande uomo – o quello di Rosaria Castellana, moglie di Michele Greco, chiamato “il papa”, donna colta e musicista, che mostrando la sua casa piena di libri ai giornalisti, chiedeva loro come potesse appartenere a un mostro, così veniva definito. O ancora quello di Maria Concetta Riina, la figlia del “capo dei capi” di Cosa nostra deceduto nel 2017, che dichiarò “Lui ai miei occhi era un’altra persona, non il mostro che vede l’Italia intera. È stato un buon padre e poi penso che ci sono delle cose che, in cuor mio, non sono state commesse”.

Cosa nostra e “parità di genere”

Nel tempo, una sorta di parità di genere raggiunta all’interno delle organizzazioni criminali di stampo mafioso, ha fatto sì che proprio la donna si trovasse in mano le redini del comando e del controllo attraverso un percorso che le porta a quella premiership all’interno delle organizzazioni mafiose, molto spesso in sostituzione di un patriarcato avvicendando, quindi, gli uomini quando questi sono in carcere.

Le donne di Messina Denaro, ma non solo

Gli esempi sono tanti, ultimo su tutti l’arresto avvenuto il 3 marzo di Rosalia Messina Denaro, sorella del boss mafioso arrestato lo scorso 16 gennaio dal ROS dei carabinieri. È ritenuta responsabile non solo di aver contribuito direttamente alla facilitazione della latitanza del fratello ma gestire la “cassa”, il sistema di comunicazione con i sodali e teneva memoria delle cure mediche necessarie al fratello.

Un posto di rilievo tra le donne di mafia spetta certamente anche Anna Patrizia Messina Denaro, anche lei sorella del boss Matteo Messina Denaro. Fu arrestata nel 2013 e condannata, in appello, a 14 anni per “associazione mafiosa” ritenendo che fosse “a pieno titolo inserita nell’organizzazione criminale”.

Le altre donne della mafia

Riavvolgendo il nastro del tempo, nel 1996 Maria Filippa Messina, 28 anni e moglie di Antonino Cinturino, boss di Calatabiano, fu la prima donna alla quale fu applicato il regime del 41 bis.
Quando Nunzia Graviano, sorella dei boss di Brancaccio Giuseppe e Filippo che in famiglia era soprannominata la “nica” (la piccola), finì in carcere aveva solo 31 anni. Era il 1999 e, al tempo, leggere negli atti processuali di allora il nome di una donna come “reggente” di una cosca mafiosa di rango era ancora cosa rara. Di lei, il gip scrisse che era “l’alter ego dei fratelli sul territorio e il punto di riferimento ‘esterno’ di tutta la famiglia”. Dalle indagini risultò che era lei che amministrava il denaro della cosca, che gestiva il denaro da dare alle famiglie dei detenuti e che teneva la contabilità delle slot machine.

Giuseppina Sansone, moglie del boss Francesco Tagliavia, fu accusata di aver gestito, dopo l’arresto del marito, gli affari della “famiglia” mafiosa di corso dei Mille e, in questa sua veste, trattava droga, ordinava estorsioni e durante i colloqui in carcere con il marito dava suggerimenti su come gestire le attività illecite della cosca. Tra le donne di mafia c’è anche Carmela Rosalia Iuculano, moglie di Pino Rizzo, capomafia di Trabia e arrestata nel 2004 all’età di 32 anni: fu accusata di aver diretto la cosca dopo l’arresto del consorte.

Non va dimenticata Giusy Vitale, sorella dei boss di Partinico Leonardo e Vito, che avrebbe retto il mandamento durante la latitanza di uno dei fratelli. All’età di 19 anni la portarono a un summit di mafia. Sotto l’influenza dei fratelli divenne con il tempo un vero e proprio boss. Nel giugno del 1988 fu arrestata con l’accusa di associazione mafiosa. Scarcerata nel 2002 fu arrestata nuovamente nel 2003 e, dal febbraio 2005, ha cominciato a collaborare con la giustizia e ha detto di averlo fatto per amore dei figli.

Mariangela Di Trapani, finì in manette nel 2017 con l’accusa di aver preso le redini del mandamento di Resuttana, roccaforte storica della sua famiglia era figlia del padrino Ciccio Di Trapani, sorella del boss Nicola Di Trapani. Aveva unito il suo destino mafioso a quello di un altro rampollo di Cosa nostra, Salvino Madonia, killer spietato, capomafia di San Lorenzo anche lui figlio e fratello di uomini d’onore che hanno scritto la storia di Cosa nostra. Era già finita in carcere nel 2008 perché portava fuori dal carcere gli ordini del marito ergastolano. Scarcerata nel 2015, ha ripreso subito la sua attività criminale, stavolta incidendo direttamente sulle scelte e le dinamiche della cosca.

Il caso di Serafina Battaglia

Non si può, però, assolutamente dimenticare il caso di Serafina Battaglia che, a seguito dell’assassinio del figlio, Salvatore Lupo Leale, decise di parlare accusando apertamente, quale autore dell’omicidio, il capo mafia di Alcamo Vincenzo Rimi.

Dopo l’uccisione del marito, che avvenne il 9 aprile del 1960, aveva spinto il figlio a vendicare il padre tanto che tentò di uccidere i boss Filippo e Vincenzo Rimi ma l’attentato fallì e il figlio è stato ucciso pochi giorni dopo. I Rimi, malgrado Battaglia avesse lanciato precise accuse, dopo essere stati condannati all’ergastolo, videro annullata la condanna in Cassazione. Il nuovo processo che si celebrò il 13 febbraio del 1979 si concluse con l’assoluzione dei Rimi per insufficienza di prove. Serafina Battaglia tuttavia continuò a testimoniare in diversi processi, a Perugia, Catanzaro, Bari e Lecce dimostrandosi una testimone implacabile.

Donne “boss” ma anche collaboratrici di giustizia

Dobbiamo ricordare che sono però sono molte le donne di mafia che, per motivi diversi, hanno deciso di collaborare con la giustizia, svelando gli affari di Cosa Nostra, accusando anche i loro stessi congiunti, mariti, fratelli, madri, consentendo così anche di riaprire casi ormai chiusi, e contribuendo a far si che si potesse pervenire, grazie alle loro rivelazioni, a sentenze di condanna.

In copertina, foto successiva all’arresto di Rosalia Messina Denaro