Lavoro

Parità di genere, Italia fanalino di coda, “Le quote rosa non bastano”

L’Europa sogna la parità di genere. In essa sperano soprattutto le donne italiane, che si scontrano ogni giorno non soltanto con la violenza di genere come comunemente la si intende, ma soprattutto con la violenza “istituzionale”, che impedisce loro di essere impiegate nel mondo del lavoro alla stessa stregua degli uomini, di vivere la maternità come dovrebbero, di percepire gli stessi compensi degli uomini, a parità di ore di lavoro e di mansioni svolte.

Ad approfondire l’argomento, l’avvocato Maddalena Boffoli, specializzato nel diritto del lavoro datoriale

Avvocato Boffoli, com’è nata la sua decisione di occuparsi principalmente della difesa delle donne?

“Sono titolare dello studio legale che ho fondato circa 20 anni fa, specializzato nel diritto del lavoro datoriale. Nell’ambito della mia esperienza professionale in tutti questi anni, quindi, assistendo aziende sia private che partecipate dalla PA, dalle piccole aziende alle multinazionali, sono quotidianamente a contatto con vertici aziendali, amministratori e Soci, per affrontare, sia nella gestione ordinaria, che nelle problematiche, ogni situazione.

In tal modo conosco direttamente quelle che possono essere le dinamiche, le problematiche e le concrete soluzioni rispetto anche, quindi, al mondo femminile. Le donne, del resto, sono senz’altro preziose risorse, al pari degli uomini, delle realtà aziendali che devono orientarsi sempre più a valori come inclusione, parità di genere, meritocrazia, competenze”

Quali sono le maggiori difficoltà che incontra il gentil sesso nel mondo del lavoro? 

“Il divario di genere nei tassi di occupazione in Italia rimane tra i più alti d’Europa. L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra i generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo.

Ricordiamoci, poi, che nell’emergenza sanitaria che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, una delle categorie più penalizzate dalla pandemia è stata proprio quella delle donne, perché occupate nei settori più colpiti o perché affidatarie di compiti familiari ulteriori che derivano dalla chiusura delle scuole o dalla cura di familiari non autosufficienti e di persone con gravi disabilità.

Il maggior ostacolo, quindi, che spesso accomuna sia le donne che gli uomini è di ordine culturale”.

La maggior parte delle mamme separate (soprattutto se non sposate) si trova nelle condizioni di doversi sobbarcare tanto le spese relative all’abitazione e al mantenimento del 50% dei figli, quanto quelle relative all’assistenza dei minori durante le loro ore di lavoro. Nel bilancio tra costi e benefici, andare a lavorare non conviene quasi mai, soprattutto considerando l’ormai conclamata incertezza del servizio scolastico. Quali soluzioni concrete consente la legge?

“Da inguaribile ottimista non voglio pensare assolutamente che per le donne andare a lavorare non conviene quasi mai. La verità è che alcuni strumenti legislativi già sussisterebbero per consentire alle donne di dedicarsi al lavoro tanto quanto gli uomini, compagni e/o mariti (pensiamo solo, ad esempio, ai congedi parentali cui anche i ‘papà’ hanno diritto): è l’ostacolo culturale che in primis dobbiamo superare. Ricordiamo poi che anche il Family act‘, riforma di accompagnamento del Pnrr, affronta proprio il tema di mettere le donne nella condizione di partecipare alla pari con gli uomini, superando la visione antiquata che vedeva le donne divise in lavoratrici o madri.

Bisognerebbe poi stimolare l’intervento di più attori (individui, aziende e istituzioni) attivando simultaneamente più strumenti. Oltre, quindi, al cambiamento radicale nella mentalità e nei comportamenti individuali e collettivi, ad esempio, strutture e strumenti di supporto alle famiglie, politiche di gestione delle risorse improntate su logiche meritocratiche”.

La giurisprudenza riesce effettivamente a garantire giustizia alle donne vittime delle diverse forme di violenza? Se no, quali forme di violenza “legittima” e in cosa penalizza il genere femminile?

“Riterrei che il problema principale è che spesso ‘le violenze’ delle donne, nelle diverse forme, non arrivino neppure al vaglio della giurisprudenza, perché, sempre a fronte del retaggio culturale di cui abbiamo parlato, le donne stesse, talvolta, faticano anche solo a riconoscere una violenza”.



Lei ha da sempre sostenuto le quote rosa. La norma è sufficiente a garantire le pari opportunità? Cosa risponderebbe a chi la ritiene paradossalmente discriminatoria? 

“Devo ammettere di essermi ricreduta sulle quote rosa nella misura in cui oggi ritengo che la norma, pur non essendo sufficiente, possa aiutare e promuovere un progressivo processo di cambiamento. Non possiamo di certo fermarci alla mera prescrizione normativa, ma dobbiamo impegnarci ad un processo di riequilibrio delle possibilità di accesso delle donne e degli uomini alle posizioni di vertice delle imprese indipendentemente dall’introduzione di quote vincolanti”.


Giudicherebbe utile l’introduzione di politiche attive mirate a incentivare le imprese ad assumere donne, prevedendo anche un supporto nei periodi “critici” (maternità, allattamento, primi anni del bambino)? Se sì, quale proposta avanzerebbe al Governo?

“Certamente le politiche attive citate possono rappresentare un buon punto di partenza per mettere tutti nelle condizioni di poter lavorare, sino alle posizioni di vertice, ma sempre nel rispetto delle competenze e della meritocrazia.

Per la mia esperienza e competenza professionale, è alle aziende che mi sento di poter proporre, ad esempio, trasparenza retributiva, programma di audit interni, sistema sanzionatori disciplinare ad hoc, benefits specifici per dipendenti con figli minori, politiche aziendali di gestione delle risorse improntate su logiche meritocratiche, ovvero, strumenti aziendali, anche di welfare, mirati alla valorizzazione di una scelta della risorsa basata su competenze professionali e meritocrazia e non sul genere”.



7) Il gentil sesso è spesso vittima della cosiddetta “violenza istituzionale”. Quella che arriva fino alle aule dei tribunali, attraverso magistrati, consulenti tecnici e servizi sociali. Secondo lei si tratta esclusivamente di un problema culturale o l’eccessiva pressione sugli uffici giudiziari fa sì che soltanto le denunce più gravi possano effettivamente avere un seguito? 

“Voglio continuare a fidarmi e credere nella giustizia e nelle istituzioni. In Italia, senz’altro, soffriamo di una profonda arretratezza sotto il profilo della rappresentanza femminile, sia nelle istituzioni che nelle aziende. Tutti dobbiamo essere messi nelle condizioni di poter osare di più per portare a compimento il percorso di cambiamento già in atto che valorizzi la scelta basata su competenze professionali e meritocrazia e non sul genere”.