ROMA – L’economia sommersa in Italia, al netto delle attività illegali, vale poco meno di 182 miliardi di euro, in crescita di 16,3 miliardi rispetto all’anno precedente. Le attività illegali, invece, sfiorano i 20 miliardi. Le unità di lavoro irregolari ammontano invece a 2 milioni 986mila, mantenendo il dato stabile rispetto al 2021.
Questi sono soltanto alcuni dei numeri certificati dall’Istat all’interno del report intitolato “L’economia non osservata nei conti nazionali, anni 2019-2022”, pubblicato soltanto pochi giorni fa. Un documento che dimostra ancora una volta come l’economia irregolare rappresenti ancora una fetta sostanziosa del motore produttivo italico, sottraendo ingenti risorse ai conti pubblici e danneggiando non poco l’andamento del Paese.
Come evidenziato dall’Istat, “l’economia non osservata è costituita dalle attività produttive di mercato che sfuggono all’osservazione diretta e comprende, essenzialmente, l’economia sommersa e quella illegale. Le principali componenti dell’economia sommersa sono costituite dal valore aggiunto occultato tramite comunicazioni intenzionalmente errate del fatturato e/o dei costi (sotto-dichiarazione del valore aggiunto) o generato attraverso l’impiego di lavoro irregolare. A esso si aggiunge il valore dei fitti in nero, delle mance e un’ulteriore integrazione che emerge dalla riconciliazione fra le stime degli aggregati dell’offerta e della domanda. Quest’ultima contiene, in proporzione non identificabile, effetti collegabili a fenomeni di carattere puramente statistico ed elementi ascrivibili a componenti del sommerso non completamente colte attraverso le consuete procedure di stima”.
L’economia illegale, invece, come precisato ancora dall’Istituto di statistica “include sia le attività di produzione di beni e servizi la cui vendita, distribuzione o possesso sono proibiti dalla legge, sia quelle che, pur essendo legali, sono svolte da operatori non autorizzati. Le attività illegali incluse nel Pil dei Paesi Ue sono la produzione e il commercio di stupefacenti, i servizi di prostituzione e il contrabbando di tabacco”.
Nel 2022 il valore aggiunto generato dall’economia non osservata, ovvero dalla somma di economia sommersa e attività illegali, si è attestato a 201,6 miliardi di euro, segnando una crescita del 9,6% rispetto all’anno precedente (quando era 184 miliardi). L’incidenza dell’economia non osservata sul Pil, cresciuto a prezzi correnti dell’8,4% rispetto al 2021, si è mantenuta sostanzialmente stabile, portandosi al 10,1%, dal 10,0% del 2021 (0,7 punti percentuali al di sotto del 10,8% osservato nel 2019, anno precedente la pandemia). La crescita dell’economia non osservata è stata trainata dall’andamento del valore aggiunto generato dalla sotto-dichiarazione, che ha segnato un aumento di 10,4 miliardi di euro (+11,5%) rispetto al 2021. Più contenuto l’incremento del valore aggiunto connesso all’impiego di lavoro irregolare (+3,7 miliardi di euro, pari a +5,6% rispetto al 2021) e dalle attività illegali (+1,2 miliardi di euro, con un incremento del 6,7%). L’aumento di oltre 2 miliardi di quelle che l’Istat definisce come Altre componenti è infine riconducibile alla crescita del contributo delle mance (che segue l’andamento della spesa per consumi finali) e dei fitti in nero percepiti dalle famiglie.
Gli andamenti delle diverse componenti hanno confermato una tendenza di medio periodo alla ricomposizione dell’economia non osservata. In particolare, si è registrato un progressivo ridimensionamento del contributo del valore aggiunto generato dall’impiego di lavoro irregolare, la cui incidenza sul totale si è ridotta al 34,3% (dal 35,6 nel 2021 e 38,1% nel 2019), mentre il peso della sotto-dichiarazione ha raggiunto il 50,1% (era 49,2% nel 2021 e 45,6% nel 2019). Si è mantenuto pressoché stabile l’impatto dell’economia illegale (9,8% nel 2022 rispetto al 10,1% del 2021) sul totale dell’economia non osservata.
La diffusione del sommerso economico è legata al tipo di mercato di riferimento piuttosto che alla tipologia di bene o servizio prodotto. Come evidenziato dall’Istat, “al fine di cogliere in maniera più accurata questa caratteristica del fenomeno, nel descriverlo si utilizza una disaggregazione settoriale che tiene in considerazione la specificità funzionale dei prodotti/servizi scambiati piuttosto che le caratteristiche tecnologiche dei processi produttivi. Nella classificazione adottata a questo fine, le attività industriali sono distinte in Produzione di beni alimentari e di consumo, Produzione di beni di investimento e Produzione di beni intermedi (che include il comparto energetico e della gestione dei rifiuti). Nel terziario, le attività dei Servizi professionali sono considerate separatamente dagli Altri servizi alle imprese”.
Ecco dunque come nel complesso, i settori dove il peso del sommerso economico è maggiore sono gli Altri servizi alle persone, dove esso costituisce il 30,5% del valore aggiunto del comparto, il Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (18,5%) e le Costruzioni (17,5%). Si osserva invece un’incidenza minore per gli Altri servizi alle imprese (5,3%), la Produzione di beni d’investimento (3,7%) e la Produzione di beni intermedi (1,4%). La stabilità dell’incidenza del sommerso sul complesso del valore aggiunto (10,1% sia nel 2022 sia nel 2021) è, secondo l’Istituto nazionale di statistica, “il risultato di dinamiche settoriali eterogenee. Infatti, mentre si riscontra una riduzione del peso del sommerso per Agricoltura (-1,0 punti percentuali), Costruzioni (-0,8), Produzione di beni alimentari e di consumo (-0,6) e Altri servizi alla persona (-0,5), si osserva di converso un suo incremento per il comparto dell’Istruzione, sanità e assistenza sociale (+0,5 punti percentuali) e per i Servizi professionali (+0,2)”.
Il contributo del valore aggiunto sotto-dichiarato all’attività produttiva ha un ruolo significativo per il Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (11,2% del totale del valore aggiunto del settore), gli Altri servizi alle persone e i Servizi professionali (11,1% in entrambi i comparti). Il fenomeno risulta invece meno rilevante per Istruzione, sanità e assistenza sociale (3,3%), Produzione di beni di investimento (2,6%) e Produzione di beni intermedi (0,5%). Il valore aggiunto generato dall’impiego di lavoro irregolare presenta una maggiore incidenza negli Altri servizi alle persone (18,9% del valore aggiunto totale), anche per l’inclusione del lavoro domestico. Al contrario, il fenomeno risulta limitato nei comparti dell’Industria (con un impatto compreso tra lo 0,9% e il 2,7%) e negli Altri servizi alle imprese (1,5%). In Agricoltura, infine, il valore aggiunto sommerso, connesso alla sola componente di lavoro irregolare, è pari al 15,3% del totale del comparto.
All’interno del report l’Istat ha anche rimarcato come il ricorso al lavoro irregolare da parte di imprese e famiglie rappresenti una caratteristica peculiare del mercato del lavoro italiano. “Sono definite irregolari – hanno spiegato dall’Istituto di statistica – le posizioni lavorative per le quali non viene rispettata la normativa vigente in materia fiscale e contributiva e quelle relative alle attività illegali, quindi non osservabili direttamente presso le imprese, le istituzioni e le fonti amministrative. Nel 2022, sono 2 milioni e 986mila le unità di lavoro a tempo pieno (Ula) in condizione di non regolarità, occupate in prevalenza come dipendenti (circa 2 milioni e 168mila unità). Rispetto al 2021, il lavoro irregolare è rimasto sostanzialmente stabile, segnando un incremento pari a +0,1% (poco meno di 3mila Ula). Entrambe le componenti dipendenti e indipendenti hanno registrato la stessa dinamica con un aumento dello 0,1%, pari, rispettivamente, a 1,6mila Ula e 1,2mila Ula”.
Il tasso di irregolarità, calcolato come incidenza percentuale delle Ula non regolari sul totale, risulta in calo nell’ultimo anno, attestandosi al 12,5% (era 12,9% nel 2021). La riduzione del tasso di irregolarità è dovuto all’effetto combinato della modesta crescita del lavoro non regolare (+0,1%) e di un significativo aumento dell’input di lavoro regolare, che ha registrato nel 2022 un incremento del 4,2%, pari a circa 843mila Ula. In forte aumento la componente dei dipendenti (+4.6% Ula regolari) che rappresenta oltre i tre quarti della crescita complessiva (647mila Ula). Il tasso di irregolarità si conferma più elevato tra i dipendenti in confronto agli indipendenti (pari, rispettivamente, al 12,7% e all’11,8%); si rileva tuttavia una tendenza all’attenuazione della differente incidenza del lavoro irregolare tra le due componenti in atto dal 2018. Nell’ultimo anno si riscontra una riduzione di 0,5 punti percentuali del tasso di irregolarità per le unità di lavoro dipendenti e di 0,3 punti percentuali per quelle indipendenti.
Dal quadro appena descritto risulta evidente come nonostante le iniziative intraprese per scovare queste attività irregolari, esse continuino ad andare avanti e a rappresentare per molti un punto di riferimento. Con buona pace dell’economia sana e di un Paese ancora alla ricerca di legalità.