PALERMO – Ha smesso di dover faticare per conquistarsi la stima degli altri, ha chiuso con l’ansia da prestazione. “Il giovane favoloso” del cinema italiano ha trovato la propria linea, la propria strada, le proprie soddisfazioni. Rifiutando la corsa alla performance, specifica che non “è” un attore. Lui l’attore lo “fa”. Che da una parte c’è la vita, dall’altra il mestiere. Comunque sia, fare o essere, a Elio Germano viene assai bene. E, ancora una volta, ci regala un’interpretazione già cult.
Nei panni di Matteo Messina Denaro è “Iddu. L’ultimo padrino”. Prodotto da Indigo Film con Rai Cinema, il film è scritto e diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, con le musiche originali di Colapesce. Preceduto da un tour di anteprime nei cinema siciliani, esce nelle sale il 10 ottobre.
Se dico Sicilia che risponde?
“… che fu lì la prima svolta della mia vita professionale. Dopo tanti anni di scuola di teatro, finalmente ero stato ingaggiato per una tournée con Giancarlo Cobelli, prodotta dallo Stabile di Messina. All’epoca avevo diciotto anni. Ero quasi sul punto di trasferirmi in quella città, quando invece tornai a Roma perché, nel frattempo, fui preso per un film dei Vanzina. E scelsi il cinema”.
Proviene da una famiglia molisana imparentata stretta con tante altre realtà territoriali del Paese. Specie nel Sud Italia.
“Penso che tutta la società rurale, non solo in Italia ma anche in altre parti del mondo, abbia lo stesso comune denominatore. Un tipo di società dalla ‘saggezza antica’, che per me è da sempre fonte di ispirazione e che riconosco ancora in alcune realtà della Sicilia, fondate su un profondo rispetto dell’uomo e della natura”.
Interpreta l’ultimo boss di Cosa Nostra. Nascosto in bella vista, otto ergastoli e soltanto otto mesi di carcere. Com’è stato calarsi nei panni dell’uomo invisibile?
“All’inizio, il tema era proprio questa ‘invisibilità’. Il progetto, infatti, è nato e stava per essere realizzato, prima dell’arresto di Matteo Messina Denaro, con il titolo ‘Il latitante’. Dopo la cattura, ha preso inevitabilmente un’altra forma. Con la mia interpretazione ho cercato di rispondere alle motivazioni che una persona si possa dare nell’agire in una determinata maniera. Così malvagia e spietata. Il punto è che ognuno di noi si sente sempre dalla parte del bene, ed è – questo – un aspetto decisamente affascinante che pone una questione critica sul nostro operato”.
Ci si innamora anche dei cattivi?
“Penso che ci si innamori del profitto, ed è il problema della nostra società. Profitto a tutti i costi, che travolge qualsiasi questione etica o morale. E questo avviene in maniera trasversale, tanto nella malavita organizzata quanto in moltissimi imprenditori che non garantiscono i diritti dei lavoratori né la loro sicurezza, o che addirittura producono morte. Ma fanno così tanto profitto da essere legittimati a continuare”.
La trasposizione cinematografica di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza mette a fuoco un’umanità a tratti banale, imperfetta, in errore. E Messina Denaro è lo specchio nel quale si riflette un mondo insensato e ridicolo. Tuttavia, non si corre il rischio di trasformarlo in eroe?
“Il dramma è che stiamo trasmettendo alle nuove generazioni quel tipo di mentalità come ‘vincente’, dove si massimizza il profitto con il minimo sforzo. Per cui, chi lavora e suda, è solo un povero disgraziato. Si fa fatica a dire allora che i criminali non sono modelli da imitare! E ritengo sia una profonda ipocrisia additare il cinema come responsabile, quando racconta storie del genere”.
Più in generale, “Iddu” è un film sulla latitanza della nostra giustizia. Ne conviene?
“Su cosa sia il film, è libera interpretazione del pubblico. Da spettatore, posso solo limitarmi a suggerire una visione, nella quale tutti i personaggi, alla fine, sono mossi da un mero interesse privato che porta al tornaconto personale. E questa dinamica è il cancro della nostra società. Una società in grave pericolo, minacciata da quel dilagante senso di individualismo e di conflittualismo, che genera profonda infelicità”.
Un tratto comune a molti italiani è pensare sempre di avere più diritto degli altri. Capita anche a lei?
“Chi più chi meno, capita a tutti di cercare una ‘scorciatoia’ per risolvere un problema, nel modo più efficace, spesso in assenza di un regolamento che funzioni… di uno Stato che sia presente. Abbiamo una mentalità di sfiducia rispetto al ‘bene pubblico’, per cui non percepiamo, ad esempio, il valore delle tasse, l’utilità dell’aiutare chi è maggiormente in difficoltà, elaborando delle strategie individuali piuttosto che trovare una soluzione collettiva, che è invece l’unica garanzia di sicurezza e di benessere. Solo stando bene tutti, nessuno attenta alla tua ricchezza personale”.
Ma, se i cattivi sono sempre gli altri, non andiamo lontano. Bisogna stare attenti ai valori da trasmettere.
“È una questione fondamentale, perché dovremmo imparare a riconoscere dentro di noi quand’è che ci comportiamo secondo modelli che finiscono ad assomigliare a quelli che formalmente critichiamo e dai quali prendiamo le distanze. Temi molto diffusi come la difesa del proprio territorio, il rispetto della famiglia e delle antiche tradizioni, la fascinazione per le armi, la risoluzione delle controversie con l’uso della violenza, la tacitazione di ogni forma di dissenso”.
Nel bene e nel male, per Elio Germano, com’è lavorare con i propri sentimenti?
“Di solito, nella nostra società, i sentimenti vanno nascosti, perché emozionarsi è dannoso alla propria carriera, è sconsigliato. La fragilità è vergogna. Allora chi può non vergognarsi dei propri sentimenti, anzi trarne un lavoro, una dignità sociale, è un privilegiato. E io fra questi”.