Lavoro

Gap salariale: in Sicilia un terzo in meno

PALERMO – Il variopinto e labile mondo dell’occupazione privata fa emergere come in Sicilia esista una condizione particolarmente problematica. Una sorta di “Far West”, per cui per uno stesso identico lavoro, si rilevano differenze enormi in busta paga.

Un dipendente privato ha una busta paga più leggera di un terzo

Storie purtroppo di ordinaria iniquità in un’Isola dove mediamente, rispetto alla media italiana, un dipendente privato ha una busta paga più leggera di un terzo. Se si guarda poi agli estremi della classifica, il confronto diventa ancora più impietoso: nel 2021, ad esempio, la retribuzione media lorda annua dei lavoratori dipendenti italiani occupati nel settore privato nella Città metropolitana di Milano era di 31.202 euro, a Palermo, invece, era di 16.349 euro, con una differenza di circa il 90%.

I dati vengono dall’Ufficio studi della Cgia, che ha rielaborato quanto reso noto dall’Inps. Palermo non è il caso peggiore sul territorio regionale, anzi.

Se la media regionale segnala come un dipendente privato guadagni il 31,9% in meno rispetto al suo collega medio italiano, tale disuguaglianza sale al 39,9% a Trapani, con una differenza di retribuzione annua che si concretizza in 8.731 euro in meno; subito dopo, Agrigento, con -37,5%, e Ragusa, a -37,2%. Messina non si discosta di molto, al -36,9%; quindi Enna, a -33,6%. Si risale un po’ la china a Caltanissetta, dove la differenza di retribuzione annua media rispetto alla media italiana si ferma al 26,7%, quindi Catania, al -25,5%, Palermo a ruota a -25,2% e Siracusa a -24,3%.

Un lavoratore siciliano guadagna 6.868 euro in meno del suo collega “medio” italiano

La media regionale ci dice che un lavoratore siciliano guadagna 6.868 euro in meno del suo collega “medio” italiano. Gli aspetti emersi dall’elaborazione eseguita dall’Ufficio studi della Cgia su dati Inps ripropongono una vecchia questione: gli squilibri retributivi presenti tra le diverse aree del Paese, come, ad esempio, tra Nord e Sud, ma anche tra le aree urbane e quelle rurali. Questione che le parti sociali hanno tentato di risolvere, dopo l’abolizione delle cosiddette gabbie salariali avvenuta nei primi anni ’70 del secolo scorso, attraverso l’impiego del contratto collettivo nazionale del lavoro.

L’applicazione, però, ha prodotto solo in parte gli effetti sperati. Le disuguaglianze salariali tra le ripartizioni geografiche sono rimaste perché nel settore privato le multinazionali, le utilities, le imprese medio-grandi, le società finanziarie/assicurative/bancarie che – tendenzialmente riconoscono ai propri dipendenti stipendi molto più elevati della media – sono ubicate prevalentemente nelle aree metropolitane del Nord. Le tipologie di aziende appena richiamate, infatti, dispongono di una quota di personale con qualifiche professionali sul totale molto elevata (manager, dirigenti, quadri, tecnici, etc.), con livelli di istruzione alti a cui va corrisposto uno stipendio importante.

Infine, non va nemmeno scordato che il lavoro irregolare è diffuso soprattutto nel Mezzogiorno e da sempre questa piaga sociale ed economica provoca un abbassamento dei salari contrattualizzati dei settori (agricoltura, servizi alla persona, commercio, etc.), ubicati nelle aree interessate da questo fenomeno.

Non si tratta quindi di un problema prettamente territoriale, ma legato alle dinamiche interne del mondo del lavoro. “Per innalzare gli stipendi dei lavoratori dipendenti, in particolar modo di quelli con qualifiche professionali minori – dicono dall’ufficio studi della Cgia – bisognerebbe continuare nel taglio dell’Irpef e diffondere maggiormente la contrattazione decentrata. Così facendo, daremmo una risposta soprattutto alle maestranze del Nord e in particolar modo delle aree più urbanizzate del Paese che, a seguito del boom dell’inflazione, in questi ultimi due anni hanno subito, molto più degli altri, una spaventosa perdita del potere d’acquisto”.