PALERMO – Sul fronte Iva e Irpef, ai danni della Sicilia si consuma uno “scippo” che vale la bellezza di 3,8 miliardi di euro l’anno.
Con riferimento a questi due tributi, infatti, dei 9,5 miliardi versati dai contribuenti siciliani nell’anno fiscale 2017, solo 5,7 infatti sono rimasti nelle casse regionali. I restanti 3,8 sono finiti nelle casse dello Stato.
Indebitamente, perché, se si applicasse alla lettera lo Statuto siciliano, l’intero gettito maturato dovrebbe restare in Sicilia.
Il condizionale è d’obbligo perché, numeri alla mano, lo Stato “concede” alla Sicilia i 6,74 decimi del gettito relativo all’Irpef e i 3,75 decimi dell’Iva maturata e trattiene per sé il resto.
Il QdS ha spesso affrontato le spinose questioni relative alle negligenze di una classe politica isolana che, blindata nella sua torre d’avorio fatta di privilegi, ha certamente molte responsabilità sul mancato sviluppo della nostra terra. Il “disastro Sicilia”, però, non porta solo la firma della nostra politica. È doveroso tenere presente anche le “colpe” di uno Stato che continua a mostrare scarsa attenzione nei confronti della Sicilia e di tutto il Sud più in generale. Perché, se da un lato esiste certamente una Regione in cui persistono inefficienze e sprechi – che, ribadiamo, noi denunciamo da ormai quarant’anni – il rovescio della medaglia è rappresentato da un apparato centrale che non corrisponde alla nostra Regione quello che le spetta. Un esempio è quanto avviene in materia di investimenti: al Sud, dove vive il 34% della popolazione, spetterebbe un terzo del totale dei trasferimenti statali ma così non è: dal 2001 al 2019 la quota media non è mai andata oltre il 24 per cento.
Ed è quanto si verifica anche in materia di tasse, dove il nodo della questione è il mancato rispetto dello Statuto siciliano: la Regione non incassa l’intero gettito dell’Irpef e dell’Iva ma solo una parte.
Noi abbiamo fatto i conti che, numeri alla mano, non tornano o meglio tornano ma non a favore nostro. “La percentuale di pertinenza regionale dell’Irpef – ci spiega l’assessore regionale all’economia, Gaetano Armao – ammonta, per il 2017, ai 6,74 decimi, mentre a decorrere dal 2018 essa aumenterà a 7,10 decimi, come previsto dall’Accordo Stato-Regione del 2016 recepito col D. lg. n. 251/2016. Sono in corso delle interlocuzioni sempre in sede di accordi Stato-Regione per raggiungere i 10 decimi”.
La percentuale di quanto resta nelle casse siciliane, tradotta in euro, equivale a 5 miliardi su 7,5 complessivi. Ciò vuol dire, se la matematica non è un’opinione, che mancano all’appello 2,5 miliardi di euro.
Sul fronte Iva, inoltre, la mancata ottemperanza dello Statuto è per noi in termini percentuali ancora più svantaggiosa perché, benché si parli di cifre più basse – sono 2 i miliardi maturati in Sicilia – all’Isola rimangono infatti solo i 3,75 decimi di quei 2 miliardi, ovvero 750 milioni: “lo Stato – ci spiega Armao – intercetta quasi i due terzi del totale dell’Iva corrisposta dai siciliani”.
A disporlo è l’art. 1 del D. lgs. n. 16/2018, pubblicato nella Guri n. 62 del 15/3/2018. Tale norma omologa la disciplina relativa alla determinazione delle quote del gettito dell’Iva spettanti alla Regione siciliana a quanto già disposto per l’Irpef dall’art. 1 del D. lgs, 251/2016 che aveva introdotto il metodo del gettito “maturato” in sostituzione del metodo del gettito “riscosso” nel territorio della regione, quantificando in termini progressivi la percentuale di pertinenza regionale: dai 5,61 decimi per l’anno 2016 si è passati ai 6,74 decimi per il 2017, mentre a decorrere dal 2018 la percentuale è fissata ai 7,10 decimi.
“Il criterio del maturato – commenta Armao – non assicura l’integralità del gettito di spettanza statutaria, essendovi per entrambi un differenziale di gettito afferente alla capacità fiscale del territorio che continua a essere percetto dallo Stato. Ciò trova spiegazione nel fatto che l’impianto finanziario di cui l’art.36 dello Statuto, secondo l’interpretazione dello Stato, è congegnato per far fronte agli oneri finanziari discendenti dalle funzioni statutariamente previste, comprese quelle ancora non trasferite”.
I milioni di Iva mancanti all’appello, sommati ai 2,5 miliardi di Irpef che la Sicilia non incassa, fanno appunto 3,8 miliardi di euro.
Un tesoretto che potrebbe essere destinato allo sviluppo della nostra sgangherata Regione ma che invece, ad oggi, ci viene negato.
Lo Statuto disatteso da Roma infligge il colpo di grazia alla nostra regione. Gettito tributi, spettanza regionale ridotta a percentuale di compartecipazione
La rinegoziazione degli accordi tra Stato e Regione è al centro dell’agenda di governo fin dall’insediamento della giunta Musumeci, che ha fatto del federalismo fiscale il proprio cavallo di battaglia per la rinascita dell’Isola.
Un federalismo non a geometrie variabili ma omogeneo, vale a dire che non utilizzi il merito come criterio esclusivo per decretare un’autonomia sul piano finanziario perché, come in più occasione ha sottolineato l’assessore regionale all’Economia, Gaetano Armao, “esistono una serie di variabili che tale criterio non include, prima fra tutte il residuo fiscale”.
Diversa è la posizione di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, che hanno chiesto al governo un’autonomia regionale differenziata, appellandosi all’art. 116 della Costituzione che prevede la possibilità di attribuire alle regioni ordinarie che ne facciano richiesta “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Si tratterebbe, in sostanza, di poter autogestire “le materie di potestà legislativa concorrente” tra le quali – come enunciato dall’art. 117, terzo comma, del testo costituzionale – vi è il “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.
Resta il fatto che, mentre continua il tira e molla sulla questione dell’autonomia differenziata, la mancata ottemperanza dello Statuto siciliano in materia fiscale infligge l’ennesimo colpo di grazia alla nostra Regione. L’accordo attualmente vigente tra la Regione siciliana e lo Stato prevede un criterio di riparto del gettito dell’Irpef e dell’Iva, riducendo la spettanza regionale sui due tributi in una percentuale di compartecipazione, anziché l’intero gettito come previsto dall’art. 36 dello Statuto siciliano, il cui primo comma recita “al fabbisogno finanziario della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione e a mezzo di tributi, deliberati dalla medesima”. E dall’art. 37 dello stesso testo, che stabilisce che l’imposta relativa alla quota del reddito da attribuire agli stabilimenti ed impianti delle imprese industriali e commerciali, “compete alla Regione ed è riscossa dagli organi di riscossione della medesima”.
L’Italia, nel panorama europeo, è una delle nazioni più vessata dalle tasse. Nel 2018 gli italiani hanno pagato infatti 33,4 miliardi di euro di tasse in più rispetto all’ammontare complessivo medio versato dai cittadini dell’Unione europea. Si tratta di un differenziale che “pesa” quasi due punti di Pil. Il che, tradotto in termini pro capite, vuol dire che un italiano ha corrisposto al Fisco 552 euro in più rispetto alla media dei cittadini europei.
E’ quanto emerge dalla comparazione effettuata dall’Ufficio studi della Cgia sulla pressione fiscale dei 28 Paesi dell’Ue. “Il tempo degli slogan e delle promesse è terminato – denuncia il coordinatore dell’Ufficio studi, Paolo Zabeo -. Con la prossima manovra di Bilancio è necessario uno scossone che nel giro di qualche anno riduca di 3-4 punti percentuali il peso delle tasse. Considerata la delicata situazione dei nostri conti pubblici, tale intervento sarà praticabile solo ed esclusivamente se si riuscirà ad abbassare, di pari importo, la spesa pubblica improduttiva e una parte dei bonus fiscali”.
Le troppe tasse sono un problema non solo perché mettono a repentaglio la tenuta finanziaria di tante famiglie e altrettante imprese, ma anche perché hanno innescato nel sistema economico dei processi viziosi molto pericolosi.
“Con un peso fiscale opprimente e una platea di servizi erogati dall’Amministrazione pubblica che negli ultimi anni è diminuita sia in termini di qualità che di quantità – afferma il segretario della Cgia, Renato Mason – la domanda interna e gli investimenti hanno subito una caduta verticale. Inoltre, è diventato sempre più difficile fare impresa, creare nuovi posti di lavoro e redistribuire la ricchezza”.