Secondo The European House – Ambrosetti il superamento del gender gap vale solo per l’Italia 110 miliardi aggiuntivi di Pil. Un tesoretto che resta lì, fermo sulla carta, perché il nostro Paese fatica a comprendere un concetto fondamentale: un mercato del lavoro poco inclusivo, addirittura ostile, che costringe le donne all’aut-aut (carriera oppure famiglia) cagiona un danno enorme alla nostra economia.
Ce lo ha ricordato per l’ennesima volta l’Ocse nello Studio economico 2023 sull’Italia: “Il tasso di occupazione nel Paese è tra i più bassi dell’Ocse (…) È necessario incrementare la presenza delle donne nel mercato del lavoro potenziando l’accesso all’istruzione pubblica per la prima infanzia. Inoltre, sarebbe utile introdurre misure atte a incentivare maggiormente il congedo di paternità, anche attraverso l’introduzione di una “quota padre” nel diritto al congedo parentale per entrambi i genitori”.
Se guardiamo alla Sicilia, i dati sono sconfortanti: secondo l’Inapp, la percentuale di contratti part-time per le donne è del 73% contro il 35% degli uomini. Una disfatta. Le donne, loro malgrado, continuano a svolgere un ruolo di semplici “comparse” all’interno del mercato del lavoro ma tutto ciò danneggia il Paese intero perché come il Presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda, ci ha spiegato in una intervista di qualche anno fa: “Il ruolo marginale delle donne incide sulla produttività e sulla competitività. Scoraggia gli investimenti e crea anche disuguaglianze”.
Ma accanto alle donne c’è un’altra categoria di “outsider” eccellenti di cui la politica si preoccupa poco: stiamo parlando dei giovani. In questo caso, l’anello debole tra l’elevata disoccupazione giovanile da una parte e la bassa crescita della produttività dall’altra, è rappresentata dalla formazione professionale. Una via d’uscita è possibile e l’Ocse la indica molto chiaramente: “Le prospettive dei giovani sul mercato del lavoro potrebbero essere migliorate potenziando gli Istituti Tecnologici Superiori (Its Academy), mentre la partecipazione delle donne al mercato del lavoro potrebbe essere rafforzata ampliando in misura considerevole la copertura dei servizi per la cura della prima infanzia, nonché aumentando ulteriormente gli incentivi per il congedo di paternità”.
Rafforzare l’inclusività, dunque, è la vera sfida a cui il nostro Paese è chiamato. Impossibile vincerla senza un cambiamento culturale che riporti al centro le donne e i giovani. Impossibile vincere questa sfida, infine, senza una visione, una strategia complessiva che ne valorizzi potenzialità e competenze e che ponga fine alla lunga stagione di interventi “spot”, limitati nel tempo e nello spazio, a cui la politica, purtroppo, ci ha abituato.
Il recente rapporto Education at a Glance 2023 dell’Ocse sull’istruzione nei Paesi avanzati (titoli di studio e livelli di apprendimento) rileva che la spesa pubblica italiana è inferiore alla media dei paesi Ocse, all’università è destinato appena il 24% delle risorse, circa la metà degli studenti non si indirizza verso il mercato del lavoro e prosegue gli studi, solo il 55% dei giovani diplomati ottiene un impiego entro due anni (percentuale più bassa tra i Paesi Ocse), la percentuale di Neet fra i diplomati è particolarmente alta e preoccupante (28%), poco più della metà degli studenti dell’istruzione e formazione professionale ottiene il titolo nei tempi previsti.
Gli stessi dati documentano che la prosecuzione degli studi presso istituti tecnici o professionali offre un vantaggio retributivo molto limitato (circa il 4%) rispetto al titolo di scuola media ed il tasso di occupazione fra i giovani i 25 – 34enni che hanno frequentato un istituto tecnico o professionale è più elevato rispetto a quelli che hanno conseguito una laurea triennale.
Questi numeri evidenziano il ruolo significativo della formazione professionale nella integrazione delle competenze fornite dall’istruzione scolastica e universitaria e nell’adattamento alle esigenze del mondo del lavoro, tanto più in un Paese che ha costantemente registrato pessimi risultati nelle ultime indagini indagine Piaac dell’Ocse sulle competenze dei cittadini adulti di 24 Stati membri.
La formazione professionale costituisce una competenza devoluta alle Regioni, ma le vicende del settore in Sicilia dimostrano che la titolarità di una ampia potestà normativa, di estese competenze amministrative e di un regime finanziario vantaggioso costituiscono un elemento necessario ma non sufficiente per realizzare politiche pubbliche efficaci ed innovative, misure a favore dei ceti più svantaggiati, interventi in grado di innescare e sostenere processi di sviluppo economico e di garantire l’erogazione di prestazioni e servizi pubblici secondo standard qualitativi e quantitativi elevati.
In un ambito strategico per la strutturazione di efficaci politiche attive del lavoro, come quello della formazione professionale, la disponibilità di ingenti risorse e l’assenza di stringenti vincoli esterni hanno generato un sistema costoso e poco efficiente, caratterizzato dalla proliferazione delle iniziative formative, delle strutture burocratiche, degli enti gestori e del personale impiegato. Ciò ha comportato una consistente lievitazione della spesa, che tuttavia, a differenza di quanto si è verificato nel settore sanitario, non ha determinato alcuna iniziativa di razionalizzazione in quanto, a partire dagli anni ’90, gli oneri sono stati progressivamente spostati a carico delle risorse comunitarie.
La disciplina regionale elenca un ampio catalogo di attività ed iniziative formative: interventi di pre-qualificazione, qualificazione, riqualificazione, specializzazione e aggiornamento, corsi di prima formazione, corsi di qualificazione, corsi di specializzazione e sperimentazione aziendale, intesi al raggiungimento di un’ approfondita conoscenza di particolari processi tecnologici ed operativi; corsi di aggiornamento e di perfezionamento, diretti ad assicurare un sistema di formazione permanente, corsi di recupero sociale per disadattati, invalidi, minorati; corsi di insegnamento complementare per apprendisti. Ai corsi disciplinati e finanziati dalla Regione si sono aggiunti quelli disciplinati e finanziati dallo Stato e dall’Unione europea, e ciò ha comportato la proliferazione di corsi ed interventi di formazione scollegati tra loro con programmazione e fonti di finanziamento differenti, seguiti sul piano amministrativo da uffici diversi, che hanno convissuto come corpi separati e non comunicanti, dando dato vita a un’offerta formativa nel suo insieme non coordinata, disarticolata e ridondante. La gestione delle attività è stata demandata, sotto il controllo del competente Assessorato regionale, ai cc.dd. enti gestori, per lo più soggetti privati “senza scopo di lucro” che operano come strutture inserite nell’apparato organizzativo della Regione per lo svolgimento di un servizio pubblico remunerato attraverso apposite sovvenzioni economiche, con vincolo di mandato ed obbligo di rendicontazione.
Il passaggio, a partire dal 2003, dall’originario rapporto di sovvenzione, basato sul controllo preventivo della spesa, a quello di “convenzione”, che prevede la rendicontazione dei costi dopo la conclusione delle attività formative, ha determinato l’aumento esponenziale degli enti gestori e prodotto notevoli difficoltà di programmazione e controllo della spesa, poiché il budget iniziale veniva spesso sforato a causa dell’aumento dei costi inizialmente preventivati, dovuto soprattutto alla crescita degli oneri del personale a tempo indeterminato. In questo contesto si è rapidamente diffusa la prassi dei cd extrabudget, saldi di finanziamento che venivano attribuiti dall’Amministrazione agli enti di formazione dopo la chiusura delle attività (in aggiunta alle somme previste inizialmente dal Piano dell’offerta formativa regionale e approvate con i decreti di finanziamento), in relazione alle maggiori spese che gli stessi dichiaravano di avere sostenuto nel corso di ciascun anno rispetto a quelle originariamente preventivate. Questo sistema ha determinato l’impossibilità di stabilire preventivamente gli oneri delle attività formative, ed è stata più volte censurata dalla Corte dei conti in sede di controllo.
Al di là dell’entità della spesa il sistema di formazione professionale regionale si è rivelato particolarmente inefficiente: l’accreditamento provvisorio, ha consentito a tutti gli enti che ne hanno fatto richiesta di partecipare ai bandi regionali e ricevere finanziamenti pubblici, a prescindere dalla verifica in ordine all’effettivo possesso dei requisiti minimi di competenza e dotazione delle necessarie risorse; gli interventi formativi sono stati incentrati su attività a basso valore aggiunto; gli oneri per le risorse umane sono arrivati ad assorbire circa l’85% del costo complessivo delle attività formative e sino al 2009, quando è stato introdotto il blocco delle assunzioni, i soggetti occupati nel settore (molti dei quali a tempo indeterminato) erano 7.227, il 46% del totale nazionale, con una notevole sproporzione, peraltro, tra dipendenti addetti all’amministrazione e personale docente. L’insuccesso di questo sistema è eloquentemente attestato dai risultati: la regione che detiene il triste record in termini di giovani che non studiano e non lavorano: il 36,8%.
Negli ultimi anni la Regione ha riformato il sistema dei tirocini formativi nelle aziende, finalizzati a favorire l’acquisizione di competenze professionali e l’inserimento o il reinserimento lavorativo dei partecipanti; aggiornato la disciplina dell’apprendistato, razionalizzato e sistematizzato le attività e gli interventi formativi attraverso la creazione di un Piano ed un Catalogo dell’Offerta Formativa Regionale, riformato i criteri di accreditamento degli enti, al fine di arginarne il proliferare incontrollato, prevedendo requisiti più stringenti in termini di disponibilità di risorse infrastrutturali e logistiche ed affidabilità economica e finanziaria.
Ciò nonostante un settore che conta circa novemila enti accreditati e oltre duemila lavoratori, tra docenti e personale amministrativo, risulta paralizzato da criticità e disfunzioni, ingenti somme rendicontate ma non saldate.
Secondo le rivendicazioni degli enti del settore deficit di programmazione, errori e ritardi nel riaccertamento dei residui e nell’applicazione delle regole contabili comporterebbero il congelamento delle attività relative a circa 100 milioni di euro del PNRR ed 1,5 miliardi stanziati nella nuova programmazione FSE 2021-2027, oltre a 40 milioni di residui relativi al precedente periodo di programmazione FSE. E la recente impugnazione della legge regionale di Bilancio potrebbe ulteriormente compromettere la situazione.
Il sistema di accreditamento, risalente al 2015, non ha garantito la realizzazione degli obiettivi di qualificazione ed efficienza preventivati e ha generato sperequazione tra gli enti del settore, creando situazioni di vantaggio competitivo a favore degli enti di maggiori dimensioni, il catalogo formativo risulta incentrato su figure professionali non in linea con le esigenze di un sistema produttivo in continua evoluzione, da diversi anni non vengono più finanziate intere tipologie formative, soprattutto quelle destinate ai neet, ai disoccupati di lunga durata e all’utenza speciale.
Così, a fronte della ingente mole di risorse di cui beneficia la Sicilia, non risultano attivati corsi di formazione obbligatori e misure di accompagnamento al lavoro e alcune delle categorie sociali più svantaggiate vengono private della possibilità di frequentare corsi gratuiti.
Questo genere di criticità penalizza il sistema economico sociale ed il mondo produttivo siciliano e accentua il divario con altre realtà regionali che hanno strutturato apparati burocratici efficienti, garantiscono la regolare applicazione delle procedure contabili, il corretto utilizzo delle risorse disponibili e la puntualità dei pagamenti, hanno avviato e definito avvisi e bandi, e stanno beneficiando di misure e percorsi di formazione in linea con le esigenze del contesto territoriale e di iniziative strumentali alla formazione e all’inserimento nel mondo del lavoro delle categorie svantaggiate.