Editoriale

“Lavoro povero”, insulto a chi lavora

Sentiamo spesso nei diversi media la definizione “lavoro povero” e ci ribelliamo, perché il lavoro in quanto tale non è mai povero e neanche ricco, ma è un’attività che ogni essere umano svolge a proprio uso e consumo ovvero alle dipendenze altrui, che deve produrre in qualche modo ricchezza. Intendiamoci, non solo ricchezza economica, ma anche ricchezza di risultati, del piacere di servire gli altri anche senza compenso, di essere utili alla Comunità e così via elencando gli esempi.

Però vi è qualche dissennato che continua a ribadire l’esistenza del “lavoro povero”, quando dovrebbe piuttosto sottolineare che vi può essere: o un lavoro non adeguatamente retribuito, ovvero un lavoro che si esercita senza pretendere alcun compenso. Non comprendiamo però la lamentela nel primo caso perché qualunque lavoro si svolga in Italia è tutelato, sul piano delle regole e su quello retributivo, dai Contratti collettivi nazionali di lavoro, che ormai sono firmati dalle parti datoriali e da quelle dei dipendenti.

Ricordiamo inoltre che vi sono i Contratti collettivi nazionali di lavoro di tutti i dipendenti pubblici, di ogni ordine e grado, cioè statali, regionali e comunali, mentre quelli delle partecipate in house e/o sotto forma di società di capitali si adeguano alle regole settoriali.
Se poi chi blatera “lavoro povero” è un sindacalista, se la dovrebbe prendere con i suoi colleghi di altri sindacati che hanno firmato i Ccnl e con ciò hanno stabilito la regolarità dei rapporti di lavoro, anche sotto il profilo del compenso.

Nonostante ciò, non possiamo ignorare che esista il lavoro in nero, cioè quello non coperto dai Ccnl, il quale non può definirsi “lavoro povero”, ma semplicemente lavoro illegale.
Di tale situazione sono responsabili i soggetti istituzionali che hanno l’obbligo di controllare tutti i rapporti di lavoro, pubblici e privati, nessuno escluso, compresi quelli in nero, per punire severamente tutti coloro che sfruttano le persone al loro servizio e che il più delle volte, purtroppo, la fanno franca. Quindi è una responsabilità oggettiva degli organi tutori, che non fanno il loro dovere, con controlli serrati e continui.

Il nostro Paese, sotto il profilo occupazionale, ha raggiunto un livello che prima non esisteva perché è stata superata la soglia di ben ventiquattro milioni di cittadini/e che lavorano ufficialmente. La conseguenza è che la disoccupazione generale è scesa al 6,8%, anche se al suo interno la percentuale di giovani senza lavoro è aumentata, così come quella degli ultracinquantenni.

In questa analisi rientra lo spopolamento delle periferie, dei piccoli centri e dei comuni di montagna, conseguente alla denatalità, cioè ad una diminuzione delle nascite. Quindi, in questo quadro, sarebbe utile l’inserimento di immigrati nel mondo lavorativo, a condizione che abbiano le carte in regola, cioè non siano clandestini.

Gli accordi con i Paesi africani per regolare l’immigrazione ancora non sono completati, ma sta funzionando quello con la Tunisia ed in qualche misura l’altro con uno dei due governi della Libia, quello di Tripoli. Sarebbe opportuno estenderli all’Algeria, Libia dell’Est ed Egitto.

Nonostante l’esplosione degli occupati e quindi delle relative entrate dei contributi previdenziali – i quali servono per pagare le pensioni – il sistema non regge perché per ragioni demagogiche e populiste in questa trentina d’anni sono stati allargati i cordoni della borsa per fare andare in pensione gente anticipatamente. Per tutti il dato del 2023, nel quale i nuovi pensionati avevano un’età media di 61,3 anni.

L’Inps ha comunicato che entro una ventina d’anni non sarà più in condizione di pagare l’intero ammontare delle pensioni e che lo stesso patrimonio dell’Ente corre seri rischi. Un po’ come dire – l’abbiamo ripetuto tante volte – “gli anziani stanno rubando il futuro ai giovani”.
Corretto il comportamento del ministro di Economia e finanza, Giancarlo Giorgetti, per cercare di tenere in ordine i conti, anche perché a sbilanciarli vi è ancora il Superbonus, forse per quaranta o cinquanta miliardi.