Nel mese di dicembre, due delle notizie che hanno dominato le prime pagine dei giornali, tra le tante, riguardano mafia e antimafia. La prima è quella relativa all’operazione “Doppio Petto”, un indagine coordinata dal procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e dai sostituti della Dda Assunta Musella e Fabio Saponara, contro la cosca Pillera-Puntina legata al boss Giacomo Maurizio Ieni, basata su indagini della squadra mobile della questura di Catania. Su richiesta dei pm titolari del relativo fascicolo d’indagine, il gip Sebastiano Di Giacomo Barbagallo ha disposto, per 14 indagati, l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere e per i 4 restanti, quella degli arresti domiciliari.
Al di là dell’organica e complessa indagine, l’elemento che ha scosso maggiormente l’opinione pubblica è stato che, nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip ed eseguita dalla polizia lo scorso primo dicembre, si è ricostruito l’arresto in flagranza di reato di un indagato, Giovanni Ruggeri, che è stato bloccato all’uscita dello stabilimento dei fratelli Di Martino con 4.000 euro, che, secondo l’ipotesi della Procura, aveva appena ritirato come “tangente” da pagare al clan. Sentito a sommarie informazioni dopo l’arresto di Ruggeri, Filippo Di Martino confermava che l’azienda di famiglia, da circa 20 anni, era sottoposta a estorsione, aggiungendo che questa “attività illecita” era iniziata con una richiesta di denaro destinato alle famiglie dei detenuti. Il fratello Angelo, però, non è semplicemente un imprenditore ma era, fino al 4 dicembre, il presidente di Confindustria Catania e, sentito a sommarie informazioni dalla polizia, ha spiegato che il fratello Filippo, suo socio nella società di trasporti, “ha insistito di pagare” i soldi agli uomini ai vertici del clan Pillera per “evitare ritorsioni e lavorare tranquilli”. Angelo Di Martino ha rimesso il proprio mandato e rassegnato le proprie dimissioni al fine, si legge in nota di Confindustria Catania, “di preservare l’immagine dell’Associazione evitando così qualsiasi ulteriore speculazione”. In realtà, quanto ammesso da Filippo Di Martino, non rappresenta un caso isolato.
Tutte le indagini condotte dalle Forze dell’Ordine in Sicilia nell’anno in corso hanno dimostrato che sono molti, troppi, gli imprenditori, che pur sottoposti alle vessazioni mafiose preferiscono subirle piuttosto che denunciare. Piccoli e grandi imprenditori trovano più conveniente tacere, molti anche di fronte all’evidenza delle intercettazioni, e molti di loro hanno instaurato con la criminalità organizzata di stampo mafioso una sorta di rapporto che va ben oltre quello che dovrebbe esserci tra vittima e carnefice, utilizzando il sistema mafioso per redimere contrasti e dispute e, ancora, per eliminare concorrenti impedendogli di esercitare la propria attività.
È la Sicilia delle maschere, per parafrasare Sciascia, e proprio in questo s’innesta la seconda notizia, quella che riguarda l’arresto, avvenuto lo scorso 12 dicembre, di Maricetta Tirrito, la c.d. “paladina antimafia” palermitana che prima a Ostia e poi a Tor Bella Monaca a Roma, si è mostrata in prima linea nella lotta contro la criminalità organizzata. La Tirrito era già assurta ai disonori delle cronache per una storia di simulazione di reato, quando finse di essere stata vittima di una lunga serie di aggressioni mai avvenute. Ancora una volta, per dirla alla Pirandello, è vero ciò che è falso e viceversa, pertanto “Così è (se vi pare)”.
Interviene al QdS Carmelo Zuccaro, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Catania.
Procuratore, le recenti risultanze di indagini che riguardano Catania hanno messo in evidenza, ancora una volta, che gli imprenditori continuano a pagare il pizzo e che, troppo spesso, non denunciano se non quando sono messi di fronte a intercettazioni dalle quali si evince la loro responsabilità e la loro scelta. Siamo di fronte a un male incurabile?
“Nonostante le indennità prevista dalla legge antiracket e antiusura per ristorare i danni subìti da chi denuncia senza remore e omertà gli autori delle predette condotte delittuose e nonostante gli indubbi successi che da alcuni anni si registrano nell’attività repressiva contro gli autori di questi reati odiosi, non v’è dubbio che il numero di quanti denunciano tali reati è ancora assai basso, e addirittura non sono poche le vittime che continuano a negare di aver subito l’estorsione anche dopo che viene loro contestato il contenuto inequivocabile di intercettazioni. In questi casi una buona parte ammette l’estorsione ma non aggiunge nulla di più rispetto a ciò che già emerge dalla stessa intercettazione, in qualche altro caso, non infrequente, continuano a negare e preferiscono subire un procedimento penale per false informazioni al p.m. o per favoreggiamento, a seconda dei casi”.
C’è un calo di fiducia nelle Istituzioni?
“Manca spesso la fiducia nel fatto che le Istituzioni siano in grado di sottrarle alla ritorsione mafiosa nel luogo in cui tali vittime vivono e lavorano e pochi sono disposti ad allontanarsi dal proprio ambiente per sottoporsi a misure di protezione come testimoni di giustizia. L’attività di associazioni antimafia e di categoria che sostengano i coraggiosi disposti a denunciare non lasciandoli soli e costruiscano intorno a loro una rete di solidarietà e protezione può far aumentare il numero delle denunce ma si tratta di un processo di crescita assai lento, come i dati degli ultimi anni confermano. Non sempre le associazioni di categoria sono però propense a svolgere questa attività e il recente episodio di un esponente di vertice di Confindustria locale che per anni ha pagato il c.d. pizzo senza fare alcuna denuncia non incoraggia facili ottimismi”.
Cosa è necessario fare, dunque?
“Bisogna dunque lavorare sul piano preventivo, lavorando sui giovani per far comprendere loro che non vi sarà mai un futuro di sviluppo economico e sociale che offra le opportunità di cui hanno bisogno, se non si è disposti a contrastare con decisione da parte della società civile il fenomeno mafioso in tutte le sue manifestazioni, mentre sul piano repressivo occorre puntare con maggiore convinzione su altri strumenti per indebolire i sodalizi mafiosi, come le misure di sequestro e confisca dei beni mafiosi, le intercettazioni ambientali e le collaborazioni”.
Ritiene che il c.d. pizzo sia oggi diventato una sorta di “costo d’impresa” da mettere a bilancio?
“In effetti è così per molti di coloro che non denunciano le condotte estorsive subite e purtroppo per loro in alcuni casi i costi diventano poi talmente eccessivi da indurli a abbandonare l’attività, specie in situazioni di crisi”.
Che la mafia abbia cambiato pelle è oramai un dato consolidato. Sappiamo anche però che una mafia silenziosa non è meno pericolosa di quella “armata” che ha riempito di sangue le strade della Sicilia e non solo. Spesso si parla di “anticorpi” ma, in realtà, sembra che il nostro passato non ci abbia insegnato nulla…
“La mafia che s’inabissa per ridurre le conseguenze della repressione giudiziaria, è un fatto che appartiene alla tradizione plurisecolare di questi sodalizi criminali. Questi sodalizi nascono per gestire il potere e acquisire profitti illeciti, sicché il ricorso a fatti eclatanti di violenza avviene solo in momenti di conflitti interni, come si sono registrati in Sicilia nei primi anni Sessanta e nei primi anni Ottanta, o di azione decisa dello Stato, come nel caso della stagione stragista avviata dopo la sentenza definitiva di condanna nel c.d. maxiprocesso per i capi mafiosi. Ne consegue che il ricorso alla violenza in forma massiccia appartiene ai momenti di crisi e debolezza della mafia, che nei momenti di forza invece è silente e coltiva più o meno indisturbata i propri affari, contando sulla propria forza di intimidazione; sulla rete di collusione che stabilisce con ambienti della politica, della pubblica amministrazione, dell’imprenditoria e della società civile; sulle enormi ricchezze che derivano soprattutto dal traffico degli stupefacenti. La mafia silente è quindi molto più insidiosa di quella armata e soffoca qualsiasi possibilità di sviluppo economico e sociale sano e pertanto va combattuta con altrettanta determinazione di quella profusa contro la mafia armata”.
Proprio di questi giorni è la notizia che riguarda l’arresto di quella che è stata definita una “paladina antimafia”. Siamo veramente la “terra delle maschere”, per parafrasare Sciascia?
“Il mimetismo dei più abili esponenti della mafia appartiene alla sua tradizione, così come i legami perversi che essa riesce a instaurare con soggetti apparentemente insospettabili. Come insegnava Giovanni Falcone occorre valutare i veri paladini dell’antimafia non dalle loro parole, che spesso nascondono ben altri intenti, bensì dalle loro azioni concrete per comprendere quanto esse siano coerenti e funzionali rispetto all’obiettivo proclamato di debellare il fenomeno mafioso senza incertezze e senza ambiguità”.
A proposito di pizzo e di usura, e alla luce degli ultimi accadimenti che hanno coinvolto Confindustria Catania, interviene al QdS Alessandro Albanese, presidente di Confindustria Sicilia.
Presidente, è evidente che molti imprenditori preferiscono pagare il pizzo piuttosto che denunciare. Il vostro “Protocollo di legalità”, quello stipulato con il Ministero dell’Interno nel 2010, funziona?
“Il ‘Protocollo’ è diventato oggi una norma statutaria e, per le regioni meridionali, ce n’è uno specifico a causa della maggiore diffusione del racket e del pizzo. Il nostro ‘protocollo’ condanna gli imprenditori che, di fatto, favoreggiano la mafia attraverso il pagamento del pizzo e la mancata denuncia. Questo riguarda i nostri associati. Proporremo, anche alla luce dei recenti accadimenti, al Consiglio di presidenza di Confindustria Sicilia, di aggiungere alle dichiarazioni di chi accetta le cariche quella di non aver pagato il pizzo o di non averlo denunciato quando, in determinate condizioni, lo hanno pagato. Aldilà, però, dei protocolli ritengo che gli imprenditori siciliani abbiamo sviluppato degli anticorpi. A Palermo, ad esempio, già dagli anni 2000 anche grazie alla sinergia con le associazioni antiracket, abbiamo convinto molti imprenditori a denunciare facendogli scegliere l’unica strada possibile, sia dal punto di vista etico sia da quello della convenienza a fronte dell’assistenza, in termini di garanzia, tutela e supporto economico, che oggi offre lo Stato. Rimane però un problema culturale che riguarda la Sicilia perché, al di là dei piccoli imprenditori che si sentono deboli di fronte alla criminalità mafiosa e quindi cedono al ricatto, anche aziende più solide ritengono di dover cedere alla vessazione ‘per non avere problemi’ dimenticando che, invece, proprio da questa scelta iniziano i problemi”.
Si parla abbastanza spesso di pizzo ma molto meno di usura. Qual è la situazione?
“L’usura, in genere, è collegata direttamente al sistema mafioso e colpisce gli imprenditori più esposti a seguito dei fattori economici come quelli che, negli ultimi tre anni, ci hanno afflitto. I rapporti che abbiamo instaurato con i grossi istituti bancari sono stati di collaborazione e, le stesse banche, hanno messo in campo diversi sostegni alle imprese. Lo Stato ha attivato i prestiti post-pandemia ma abbiamo chiesto un rifinanziamento dei mutui ottenuti trasformandoli in mutui ‘a lungo termine’ perché, in realtà le tempistiche iniziali, da 3, 5 o 7 anni, oggi mettono le aziende in un nuovo stato di sofferenza. Purtroppo è più semplice ottenere denaro tramite l’usura, anche se questo fa imboccare una strada che porta all’acquisizione dell’impresa da parte della criminalità organizzata. Il fenomeno deve essere combattuto in maniera sinergica e gli imprenditori, soprattutto quelli delle piccole imprese, devono essere portati a conoscenza degli strumenti oggi possibili grazie all’intervento dello Stato, come la composizione negoziata della crisi e quella di contrattare con lo Stato i piani di rientro anche in termini fiscali”.
In generale, qual è lo stato di salute delle imprese siciliane?
“Avevamo notato una piccola ripresa che ha riguardato e imprese manifatturiere e quelle dell’agroalimentare, anche se la stagione climatica ha rischiato di stroncare la produzione del vino e dell’olio. Le nostre aziende si stanno difendendo ma la situazione continua a essere problematica. Contiamo sul fatto che il 2024 possa essere, in termini di crescita, un anno positivo. Non possiamo dimenticare, inoltre, i problemi legati all’inflazione che ci fa pagare in termini di consumi interni, di aumento del tasso dei mutui con le problematiche connesse con l’edilizia, con il calo della costruzione di nuove abitazioni o di ristrutturazione. È un po’ il cane che si morde la coda e attendiamo risposte serie a questa politica dei tassi, che si muove in ambito europea, con un abbassamento che ci permetterà di lavorare per una ripresa almeno a una cifra, visto che oggi siamo al di sotto. Quando leggiamo che la Sicilia è più competitiva rispetto al passato, dobbiamo però ricordarci che il dato di partenza era più basso di quello di altre regioni”.