Bellezza

La ricerca che sfida le diseguaglianze per garantire cure accessibili a tutti

“Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari” recita l’articolo n.25 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

Eppure, lo sappiamo bene, spesso la medicina non “è roba per poveri”. A dimostrarcelo non sono bastate le continue epidemie di numerose malattie che causano la morte di centinaia di persone che vivono negli Stati più arretrati del mondo e che, invece, nel benestante Occidente vengono curate e, in alcuni casi, debellate. L’ennesima conferma è arrivata, giusto un paio di anni fa, dalla pandemia da Covid-19 che ha colpito indiscrimatamente tutti i popoli: stando a uno studio di Oxfam-Emergency, ancora a novembre 2022, infatti, mentre la percentuale della popolazione vaccinata nei Paesi poveri era ancora sotto il 20%, nei Paesi ricchi il dato superava il 74%.

Ma denunciare non basta: serve produrre farmaci a basso costo che possano essere distribuiti anche tra gli abitanti di quei territori che non possono permettersi di spendere costi pari a circa 15 euro per una singola dose di vaccino, così come è stato nel caso di Pfizer. Per fortuna la ricerca “ci mette sempre lo zampino” ed ecco che la scienza “si fa bellezza”, grazie alle attività di laboratorio di centinaia di studiosi di tutto il mondo che lavorano continuamente per rendere le cure accessibili a tutti.

Maria Elena Bottazzi e Peter Hotez, co-direttori del Texas Children’s Hospital Center for Vaccine Development
(Foto su concessione dell’ospedale pediatrico del Texas)

Un caso d’eccellenza in tal senso è rappresentato da Maria Elena Bottazzi, la microbiologa di origini genovesi, che da vent’anni è impegnata in prima linea nella ricerca finalizzata allo sviluppo di farmaci contro virus diffusi, che possano essere tecnologicamente ed economicamente sostenibili anche per i Paesi sottosviluppati. La dottoressa, che è una decana associata Phd del Baylor College of Medicine di Houston e docente di biologia alla Baylor University di Waco (Texas), si è particolarmente distinta nell’ultimo anno per aver creato, insieme a Peter Hotez e al suo team di ricerca, “Corbevax”. Si tratta del primo vaccino anti Covid libero da brevetto e replicabile a prezzi accessibili. Abbiamo avuto l’onore di intervistarla per saperne di più di questa idea che lo scorso anno l’ha portata ad ottenere la candidatura al premio Nobel per la pace.

Come è nata la sua attività di ricerca? Quali le finalità perseguite?
“Già da moltissimi anni, insieme a i vari team correlati alle ricerche, stiamo lavorando per sconfiggere le malattie che affliggono tutto il mondo, con una particolare attenzione alla sostenibilità economica per il Paese che deve acquisirlo per poi distribuirlo alla sua popolazione. Già dieci anni fa avevamo iniziato ad individuare alcune forme di Sars-Covid19, così come poi l’abbiamo conosciuto. La nostra attività segue un criterio predittivo in base al quale cerchiamo di studiare i virus per comprenderli anticipatamente e conoscere al meglio le armi per sconfiggerli prima che sia troppo tardi. È questo l’obiettivo che abbiamo perseguito anche per la realizzazione di Corbevax: la nostra tecnologia vaccinale offre un percorso per affrontare una crisi umanitaria che ha fatto emergere la vulnerabilità che i Paesi a basso e medio reddito hanno mostrato contro la variante Delta. Un altro aspetto molto importante riguarda l’assenza di brevetto che permette a tutti di acquisrine la tecnologia senza affrontare alcun tipo di ulteriore costo. Corbervax, infatti, prevede un costo di produzione pari a circa 1,5 dollari per dose. Ci impegniamo, inoltre, a supportare i territori per trasferire loro le conoscenze necessarie a riprodurre autonomamente i farmaci in questione”.

Su quali fronti siete attualmente attivi? Come vi finanziate?
“Stiamo continuando la nostra ricerca sul Covid-19 che, come sappiamo, ha visto una continua comparsa di nuove varianti. Il nostro scopo è anche quello di creare sistemi di vaccinazione per via orale, così da alleggerire ulteriormente tempistiche e costi. Nel frattempo va aggiunto che da oltre vent’anni il nostro centro di sviluppo dei vaccini si occupa delle cure per le malattie tropicali. A queste ultime la medicina occidentale riserva poco interesse in quanto non danno profitti perchè diffuse solo tra i poveri, come ad esempio i parassiti intestinali. Non si considera, però, un aspetto fondamentale: curare e vaccinare contro queste malattie potrebbe attivare un circolo virtuoso di salute per la popolazione interessata, innescando così anche processi lavorativi ed economici che permettano di uscire dalle condizioni di povertà”.

Perchè produrre farmaci che non vi resistuiscono, di fatto, profitti? E come riuscite a finanziarvi?
“Riusciamo a lavorare grazie alle sovvenzioni governative, come quelle federali negli Usa, ma anche attraverso numerose donazioni di associazioni no profit. Una buona parte dei nostri fondi proviene anche dal mondo della filantropia, che decide di elargire generose somme di denaro per cause solidali. La linea guida che anima la nostra ricerca si basa sul concetto di open science, ovvero una scienza aperta a tutti. Questo permette di creare un clima di collaborazione e cooperazione nel mondo della ricerca che tuteli e garantisca la salute collettiva, ancor prima dei profitti. Come accennavo prima, produrre salute significa favorire l’economia di tutto il mondo. Troppo spesso i governanti ragionano in un’ottica nazionalista, e la pandemia ce lo ha dimostrato. Con Corbevax siamo riusciti a diffondere la vaccinazione in Paesi che erano gli ultimi in classifica per quanto riguarda il tema vaccinazione, a cominciare dall’India e dal Botswana dove il farmaco è stato già autorizzato”.

Che emozione si prova ad essere candidata al Premio Nobel per la pace? E cosa vuol dire essere una donna scienziata oggi?
“Quando ho ricevuto la notizia ero sicuramente molto emozionata ma anche piuttosto sorpresa. Da oltre vent’anni il mio lavoro e quello del mio team è cercare soluzioni e tecnologie che possano contribuire a garantire e promuovere la salute globale. È statodunque un grande onore vedere riconosciuta la nostra attività, che non è sempre facile portare avanti ma comunque il nostro unico obiettivo è quello di aiutare le persone più povere e non di creare capitali o trarne profitti. Sono altrettanto onorata di essere una donna ricercatrice e noto con piacere come nel corso degli anni il genere femminile si stia facendo sempre più strada nel settore delle discipline scientifiche e, più in generale nel mondo delle Stem. Spero dunque che la mia attività, così come quella di tantissime altre scienziate, possa fungere da monito e da esempio per tutte le bambine di oggi che magari, un giorno, vorranno e potranno intraprendere una carriera nel settore”.