Era il 26 gennaio 1979 quando Mario Francese arrivò sotto casa, all’altezza del civico 15 di viale Campania a Palermo. Quella sera non parcheggiò, come al solito, vicino all’uscita dei garage ma di fronte, vicino alla pompa di benzina. Scese dall’auto e attraversò la strada prendendo dalla tasca dei pantaloni le immancabili sigarette e i cerini. Il killer, che risulterà poi essere Leoluca Bagarella, uomo d’onore appartenente alla famiglia dei “corleonesi”, gli sparò con una calibro 38 alle spalle. Da allora sono passati 43 anni. Il suo ricordo è affidato alle parole di quattro colleghi, quattro giornalisti che hanno vissuto quel tempo e quella città.
Oggi ricordiamo Mario Francese attraverso le parole di quattro colleghi: Piero Melati, Franco Nicastro, Daniele Billitteri, Sergio Raimondi. CONTINUA LA LETTURA
LEGGI L’ARTICOLO DALL’INIZIO. «Mario Francese era figlio di un periodo storico in cui non si lavorava sulle carte giudiziarie, o perlomeno ci si lavorava solo parzialmente, come poi è successo dopo di lui, perché a quel tempo si andava “in strada” a cercare le notizie, anche le più scabrose. Mario Francese era famoso perché conosceva luoghi della città a tutti gli altri sconosciuti e aveva confidenza con persone con cui non parlava nessuno. Da lì attingeva quantomeno le voci, se non le notizie, che poi andava a verificare in tribunale con i pubblici ministeri.
Come esperienza personale, Mario Francese era molto amico di mio zio Lillo perché sua moglie era, come mio zio, di Campofiorito. Lo conobbi, quindi, prima del mio periodo giornalistico, quando, in un ambito più familiare andavamo a fare gite in campagna che prevedevano grandi pranzi nelle baite vicino al paese. Campofiorito, per chi non lo sapesse, è a due passi da Corleone. In quel luogo, in cui andava sempre ogni estate, ha percepito la scalata di Riina e il fatto che fosse diventato più importante di Leggio, anni prima che tutti noi lo capissimo, investigatori compresi. In quel luogo, Mario Francese conosceva tutti e le voci giravano, a riprova che era uno che “stava in strada” con gli occhi e, soprattutto, le orecchie aperte.
I suoi figli, che al tempo erano piccoli, avevano molta confidenza con tutta la mia famiglia. È il racconto di alcuni di loro che mi ha fatto comprendere meglio la sua figura. Capitava talvolta che qualcuno, perché s’incontravano per strada, lo accompagnasse quando lui doveva “andare a caccia di qualcosa”. Era sconvolgente come conoscesse angoli e zone di Palermo, sconosciuti anche a persone che la città la conoscevano bene, cui, non si capiva come, riuscisse ad accedere e come fosse alta la sua credibilità in quei luoghi perché le persone parlavano e si confidavano con lui. La stessa cosa succedeva in Tribunale, nella sua veste ufficiale di cronista di giudiziaria. Lui stava sempre vicino al banco del pubblico ministero e qualcuno, al processo per la sua morte, disse che suggerisse ai pubblici accusatori. Non ritengo che fosse così ma, senza dubbio, aveva una visione estremamente completa, a volte anche superiore a quella del pubblico ministero su quanto si stesse dibattendo grazie alla sua grande capacità di analisi e, altra sua grande capacità, quella di riuscire a verificare quanto trovava “in strada” con quanto gli aspetti dell’indagine e quella processuale dimostravano. È un modo di fare il giornalista che, dopo di lui, si è perduto perché, alla fine, ci siamo basati, anche eccessivamente, sulle carte giudiziarie.
A differenza di De Mauro, che era scomparso nel nulla, l’omicidio di Francese ha suscitato una reazione diversa. C’è una certa differenza tra far scomparire nel nulla un giornalista e non sapere che fine avesse fatto e, come accaduto nel 1979, decidere di far trovare il suo cadavere in una strada sotto casa sua e farlo vedere a tutti, dare a tutti il segnale che qualcosa era cambiato e non solo il nemico della mafia si annidava nelle forze di Polizia o in pezzi della magistratura ma che anche raccontare queste cose era diventato impossibile pena la morte. Ritengo che sia stata una delle prime volte in cui la mafia abbia celebrato un rito pubblico, quello dell’omicidio, per far capire a tutti di “stare attenti” e questo fa cambiare gli equilibri.
C’è una generazione di giornalisti che aveva iniziato a lavorare per “L’Ora” e poi andarono al “Giornale di Sicilia”, anche per lavorare per una testata economicamente più sicura. Da quel momento ci fu un veto e, anni dopo, si sarebbe saputo che questo era stato un veto personale di Totò Riina, ossia quello di evitare di assumere i giornalisti de “L’Ora” al “Giornale di Sicilia”. Quell’omicidio fu un intervento pesante e diretto, nei confronti della stampa, del giornalismo palermitano e siciliano. Fu uno spartiacque, l’omicidio di Francese, tra i “paciosi” anni ’70 che avevano sì visto la scomparsa di De Mauro, l’uccisione di Scaglione e nel ’77 quello del colonnello Russo nel bosco della Ficuzza ma, al di là di questi episodi, erano stati anni di grande pace. Con l’omicidio di Mario Francese si aprono gli anni ’80, gli anni della guerra di mafia, gli anni degli omicidi eccellenti. Anni ’80 che cominciano con due elementi che da allora ossessionano. Il primo è che quelli che hanno visto quell’immagine, subito dopo che Bagarella sparò, dissero che “sembrava un cappotto lasciato a terra” perché dopo l’omicidio si creò il vuoto in quella piazzetta e, visto da lontano, il corpo di Francese sembrava, appunto, un cappotto abbandonato. L’altra cosa, strana, è che ci furono dei testimoni che dettero la descrizione del killer, segno che ancora in quell’epoca a Palermo c’erano pezzi della città che non erano omertosi ma che andavano a dare testimonianza, che non si sono ritratti e hanno descritto Bagarella. Da quel momento in poi, però, l’omertà comincia a diventare un fenomeno più pesante per la paura di essere coinvolti, di essere uccisi. Ritengo che l’omicidio pubblico per la mafia sia sempre stato una sorta di rituale per dire a tutti di stare attenti a non superare una certa soglia e non soltanto un’esecuzione dettata da motivi pratici. La tecnica era sicuramente dettata da motivi pratici ma c’era quest’altro valore altamente simbolico che la mafia si giocò in un territorio che doveva essere governato solo da loro e che fu governato solo da loro fino all’avvento con del pool antimafia.
Mario Francese univa i puntini per avere il quadro, il contesto della situazione. Francese aveva nel cassetto un’inchiesta, che fu pubblicata solo successivamente alla sua morte, in cui per la prima volta si faceva il nome di Totò Riina e si evidenziava l’arrivo dei Corleonesi. Questo era un taglio giornalistico che fece di lui uno dei primi giornalisti d’inchiesta. Francese metteva insieme i pezzi e ne traeva inchieste, non singoli articoli. Dalla sua analisi emergeva che c’era una novità, ossia quella di “un nuovo sceriffo in città”, un narcisistico dittatore molto carismatico che cominciava a dettare legge». IL RICORDO DI FRANCO NICASTRO, EX PRESIDENTE ODG SICILIA. CONTINUA LA LETTURA
LEGGI L’ARTICOLO DALL’INIZIO. – «Mario Francese era un giornalista che ha sempre cercato di svolgere il suo lavoro nella maniera più semplice cercando le notizie e avendo i rapporti anche con i protagonisti delle vicende di cui si occupava. Rappresentava una figura tradizionale di cronista che stava sui fatti, che era presente e che assumeva il ruolo di testimone. In un’epoca in cui non c’erano internet e nemmeno i telefonini, lui andava in giro a raccogliere le notizie appuntandole sul block-notes che teneva sempre a portata di mano. Era in grado di esporsi nella ricerca dei fatti, nella composizione delle trame e di mettere assieme un quadro d’interessi complessivi che si muovevano assieme alle dinamiche interne alla mafia analizzando, per primo, il rapporto tra mafia e affari soprattutto attorno alla figura dell’emergente Totò Riina e che lui evidenziò anche con l’intervista a Ninetta Bagarella, la moglie, proposta per il soggiorno obbligato. La sua inchiesta su “mafia-appalti” fu un passaggio cruciale e decisivo e sicuramente questo accelerò la decisione della mafia di eliminarlo.
Mi occupavo, in quel periodo, di giudiziaria per “L’Ora” mentre lui se ne occupava per “Il Giornale di Sicilia”. Gli eventi hanno fatto sì che fui proprio io a sostituirlo al giornale nel ruolo di cronista giudiziario. In quegli anni tutti i giornali puntavano sulla qualità dell’informazione. Già nel 1958 c’era stata un’inchiesta del giornale “L’Ora”, quell’inchiesta che scatenò la rappresaglia della mafia che mise una bomba in tipografia. L’approccio di Francese era, in quegli anni, quello di seguire le regole e i metodi del giornalismo d’inchiesta e lo faceva con coraggio, a viso aperto e senza avere grandi coperture alle spalle e proprio per questa sua condizione si trovò esposto a una rappresaglia così crudele.
Ero a casa, quel 26 gennaio, perché mia moglie stava per partorire la nostra prima figlia. Ricevetti una telefonata. Corsi subito là, in viale Campania. Non ci misi molto a capire cosa fosse successo e le preoccupazioni e i timori che nutrivamo per l’esposizione dei cronisti che si occupavano di giudiziaria e di mafia trovarono quella sera una conferma perché quall’episodio era un attacco che veniva sferrato, attraverso la figura di Mario Francese, a quel modello di giornalismo.
C’era, inoltre, l’aspetto della spettacolarizzazione. Proprio in quel momento prende il via una stagione che è raccontata dalla Storia di quegli anni. Con Francese inizia, nel 1979, un anno di fuoco che introduce quel decennio di sangue che sono stati gli anni ‘80. Proprio quella stessa sera ci fu un altro omicidio con due morti. Si delineò una strategia sia criminale sia di politica criminale che mirava a eliminare giornalisti che davano fastidio come Mario Francese, politici come Michele Reina che era stato protagonista di un’apertura al dialogo con i comunisti, fu eliminato prima Giorgio Ambrosoli, a Milano, e poi Boris Giuliano, che era il modello di un investigatore moderno, che aveva innovato le tecniche investigative e che aveva, per primo, trovato un canale per arrivare a colpire la mafia, quello di seguire il denaro. Nel mese di agosto, inoltre, esplose la trama legata a Michele Sindona, quella che metteva insieme il potere criminale e quello economico e che ricattava la politica aperta al rinnovamento e più in generale al processo di rinnovamento della società e poi, a settembre, toccò a Cesare Terranova e Lenin Mancuso. In quel 1979 iniziò la strategia dei Corleonesi di scalata ai vertici di Cosa Nostra e di rimozione di tutti i personaggi scomodi, interni ed esterni alla mafia, e chiunque fosse portatore di una cultura antimafiosa veniva subito eliminato. Tutti questi delitti, anche se non avevano una relazione funzionale tra di loro, descrivevano però il quadro criminale che si stava componendo». IL RICORDO DI DANIELE BILLITTERI. CONTINUA LA LETTURA
LEGGI L’ARTICOLO DALL’INIZIO. – «Mario Francese era un signor cronista. Lo era in maniera istintiva perché era uno di quelli convinti che l’informazione fosse fatta di notizie, e lui cercava notizie. Aveva il gusto e la capacità di trovarle e, soprattutto, di riconoscerle. Francese era una persona che non aveva “la puzza sotto il naso”, era uno di quelli che riusciva anche nelle piccole cose a leggere disegni più grandi. Sicuramente un maestro oltre che un grande giornalista.
Nessuno di noi, noi che facciamo questo mestiere, si salva dal pregiudizio e anche lui non ne era esente, ma perché? Perché lui arrivava a occuparsi dei processi dopo che la vicenda l’aveva seguita in tutte le fasi precedenti e quindi non era strano che in aula, durante il processo, lui ne sapesse di più del pubblico ministero al punto che si diceva che “suggerisse” ai pm stessi. Quando morì si ritenne anche che questo suo modo di fare fosse una possibile concausa del suo omicidio, perché in un processo di mafia questo suo atteggiamento dava sicuramente fastidio all’imputato. Mario Francese era un giornalista stimato da tutti, compresi gli avvocati. Non solo quelli di parte civile ma anche da quelli che, in quel momento, stavano difendendo mafiosi. Gli erano riconosciute autorevolezza e competenza anche perché non ha mai nascosto da quale parte stesse, ossia quella della giustizia. Oggi, come allora, lo stare dalla parte della giustizia è spesso equivocato come se questo non ti permettesse di essere super partes e, in quel periodo storico, c’era una “guerra” nei confronti del sistema mafioso e, come si suole dire in questi casi, se sei amico dei miei nemici allora diventi un mio nemico.
Mario Francese aveva un atteggiamento quasi letterario nei confronti del “caso” che era non tanto un enigma da risolvere, ma una scacchiera in cui ogni pezzo doveva avere la sua giusta collocazione, un album di figurine dove non manca quella del campione di turno ma in cui tutto deve essere ordinato nel suo contesto e deve avere una sua logica. Questo, anche se sacrosanto, spesso è in contrasto con l’esercizio della verità. L’errore più grande che può fare un cronista è pensare che esista una sola verità ma non è così, perché esistono molte verità che sono legate allo svolgersi del tempo che serve, appunto, per verificarla. Un grande errore, nel nostro mestiere, è fossilizzarsi su ipotesi iniziali perché questo fa sfuggire al proprio sguardo l’evolversi degli eventi e il raggiungimento di una nuova verità.
Mario Francese ha fatto sempre, in ogni momento della sua vita, il suo mestiere e non è giusto dire che ha cercato l’odio da parte di Cosa Nostra con il suo operato. Ha fatto semplicemente il lavoro che aveva scelto di fare. Era un uomo giusto, onesto, saggio, intelligente e un fior fiore di cronista. Era uno, per così dire, all’antica e chi, al tempo, lo definì un cronista di provincia, cui piaceva avere ragione e che utilizzasse i fatti per confermare le sue ipotesi, sbagliava. Mario Francese fu il primo a capire, scavando negli intrighi della costruzione della diga Garcia, l’evoluzione strategica e i nuovi interessi della mafia corleonese.
Quel 26 gennaio ero al giornale. In quel periodo mi occupavo di giudiziaria per “L’Ora” sotto la guida di Alberto Stabile. Sarei poi passato al “Giornale di Sicilia” alla fine di quel terribile 1979. Appresi la notizia ascoltando la radio che era sintonizzata sulle frequenze della Polizia. Andai in viale Campania assieme a Ciccio La Licata, che in quel periodo lavorava per “Il Diario”, testata nella quale lavorava anche Giulio, il figlio di Mario. Fu Boris Giuliano che lo prese da parte per dirgli che quella nonera un’ammazzatina qualunque ma che quel corpo a terra era quello di suo padre». IL RICORDO DI SERGIO RAIMONDI. CONTINUA LA LETTURA
LEGGI L’ARTICOLO DALL’INIZIO. – «L’omicidio di Mario Francese è stato sicuramente sottovalutato. Ho chiaro il ricordo che pochi, quasi nessuno, avesse capito chi e perché lo avessero ucciso. Negli stessi ambienti investigativi si pensò di cercare, erroneamente, la matrice dl suo omicidio all’interno il giornale. L’humus mafioso che viveva in questa città mise in piedi, in ambiti anche vicini al giornale, una campagna di delegittimazione di Francese fino a quando, finalmente, qualcuno non alzò il coperchio della pentola e la verità emerse immediatamente.
Non solo lavoravo nello stesso giornale, il “Giornale di Sicilia”, ma avevamo le scrivanie una accanto all’altra. Mario Francese era un uomo generoso ma anche ingenuo, una persona cristallina e, a volte, imprudente. Alcuni argomenti vanno trattati con una misura e un distacco che un cronista, allora come oggi, è necessario abbia perché il cronista racconta fatti sui quale può e deve indagare. A quell’epoca in Sicilia il giornalismo investigativo non esisteva, e forse nemmeno ora. Mario Francese era questo e, spesso, non aveva il senso della misura, della prudenza. Aveva la consapevolezza di aver messo a fuoco una situazione, quella mafiosa, che solo dieci anni dopo sarà confermata. Chi fosse Riina, al tempo già latitante, si sapeva ma intervistare Ninetta Bagarella sulle scale del Palazzo di Giustizia fu un atto rivoluzionario.
Mario Francese era un uomo autentico, onesto, generoso e che non si risparmiava mai. Arrivava verso le 16, dopo una giornata trascorsa a Palazzo di Giustizia, e buttava giù dieci, dodici pezzi e lo faceva a raffica, scrivendo senza filtri. Quando lui scriveva era “Cassazione” e i fatti successivi l’hanno dimostrato. Mario era anche molto modesto e consapevole dei propri limiti. Parla spesso in dialetto, un pò palermitano e un pò siracusano. Forse, come diceva lui, non scriveva in maniera brillantissima ma non scriveva cose di poco conto o di argomenti frivoli. Ho ricordo di una persona estremamente gentile, molto fragile ma con una grande forza, umana, morale e professionale. Per me è stato il simbolo di come si deve fare questo mestiere, un raggio di luce e un’ispirazione continua.
Il 26 gennaio c’eravamo incrociati al giornale nel pomeriggio, lui arrivava e io uscivo perché c’era stata una sparatoria in via del Giardino, dove fu gambizzato il titolare di un negozio. Era un fatto particolare perché la gambizzazione, in quel periodo, era appannaggio del brigatisti, del terrorismo rosso. Quando rientrai al giornale Mario non c’era perché era già andato via. Squillò il telefono sulla sua scrivania e, anche se non era una mia abitudine, risposi. Era Fabio, uno dei figli, che lo cercava per avvertirlo che c’era stato un omicidio sotto casa loro. Un brivido corse lungo la mia schiena, come se avessi avuto una premonizione. Dopo poco, come una furia, arrivò Lino Rizzi, il direttore, urlando “Hanno ammazzato Francese”. Quasi svenni. Mi misi a piangere come un bambino e fui consolato dalle braccia quasi materne di Marina Pino, una collega, che piangeva con me. I colleghi andarono in via Campania ma io non riuscii ad andarci. Dopo poco meno di un’ora dalla radio, quella sintonizzata sulle frequenze di Polizia e Carabinieri, arrivò la notizia che in zona Villagrazia erano stati trovati due morti. Cercai di riprendermi dallo shock e andai anche perché non si poteva escludere che questi due omicidi potessero avere un collegamento con l’omicidio di Mario. In realtà non fu così.
Avevo 29 anni, al tempo, mentre Mario ne aveva 54. Era come se fosse morto un fratello maggiore, forse un padre, una persona cui, fino a quel momento, avevi fatto riferimento, professionalmente parlando. Era un cronista che consumava veramente le suole delle sue scarpe, che aveva persone da cui, anche pericolosamente, prendeva notizie, che raccontava le cose con onestà, senza mai farsi corrompere da nessuno e da niente e il suo stile di scrittura era trascurabile perché l’esempio era l’uomo, con i suoi pregi e i suoi difetti, era il cronista, quell’individuo che, al di là delle sue stesse forze anche fisiche, era disponibile anche a morire per il proprio mestiere».
Oggi, a Palermo, Mario Francese è ricordato in viale Campania, nel suo in cui è stato ucciso ma il suo ricordo è e sarà sempre nella penna che noi giornalisti usiamo che per scrivere.
Roberto Greco