Matteo Messina Denaro è morto oggi per le conseguenze legate a un tumore al colon al quarto stadio. Con la sua scomparsa non si chiude nessuna stagione, perché ha portato con sé, nella tomba, i segreti indicibili che hanno segnato con il sangue la storia italiana. La morte di Matteo Messina Denaro non desta né scalpore tantomeno sdegno.
Arrestato lo scorso 16 gennaio, a seguito di una complessa e coordinata attività del Ros dell’Arma dei carabinieri, proprio nel corso dell’interrogatorio del 13 febbraio scorso condotto dal Procuratore della Repubblica Maurizio de Lucia e dal Procuratore Aggiunto Paolo Guido alla presenza del Tenente Andrea Riccio e del Luogotenente Benedetto Mastrogiacomo, entrambi in servizio al R.O.S. dei Carabinieri di Palermo aveva dichiarato “Non voglio fare né il superuomo e nemmeno arrogante: voi mi avete preso per la malattia, senza la malattia non mi prendevate”.
Una belva sanguinaria o un uomo sconfitto dalla malattia? Al momento del suo arresto Matteo Messina Denaro apparì come un uomo malato di tumore, pallido e rassegnato. E questa è l’immagine che ha voluto consegnare ai posteri, quella di un uomo anziano e sconfitto non dallo Stato ma da uno degli eventi più ineluttabili nella vita di un uomo, la malattia.
L’uomo che le sentenze di mafia bollarono come il boss dei boss, come il successore di Totò Riina nella politica delle stragi dei corleonesi, uscì dalla clinica “La Maddalena” dove era sottoposto a un ciclo di chemioterapia e finì nelle mani dello Stato, quello Stato di cui si era preso gioco nei suoi trent’anni di latitanza.
Un boss consapevole e rassegnato? “No, io mi sento uomo d’onore, nel senso di altri… non come mafioso” disse l’ex boss nel già citato interrogatorio del 13 febbraio scorso, aggiungendo di non essere mai stato “combinato”, di conoscere Cosa nostra solo attraverso la lettura dei giornali e di non aver mai avuto a che fare con Cosa nostra se non in maniera involontaria. Negò anche di conoscere Bernardo Provenzano, di averlo visto solo in televisione e che la corrispondenza con lui, in cui ognuno chiedeva all’altro semplicemente dei favori, era derivante dal fatto che erano entrambi accusati ingiustamente di essere appartenenti alla consorteria mafiosa.
Come hanno confermato diversi collaboratori di giustizia, “Diabolik”, uno dei suoi soprannomi, nonostante i viaggi in giro per l’Italia, durante la latitanza rimase per lungo tempo nella sua terra natale, la Sicilia, l’ambiente ideale in cui poteva nascondersi e nella quale si stava curando. A pane e mafia era stato allevato il boss, restando nel gotha di Cosa nostra e accumulando negli anni un lungo curriculum criminale.
Figlio di Francesco Messina Denaro, vecchio capomafia di Castelvetrano e fidatissimo di Totò Riina, era rimasto l’ultimo dei vecchi padrini di Cosa nostra, pur discostandosi dalla strategia stragista dei suoi predecessori dopo la scalata al potere. Il suo basso profilo, supportato da quella “zona grigia” che circonda le mafie, quella che il procuratore De Lucia, nella conferenza stampa che seguì il suo arresto, definì “borghesia mafiosa”, fu il metodo che gli ha permesso una delle più lunghe latitanze. Di lui non esistevano foto segnaletiche, visto che l’ultima foto nota risaliva a quando era giovane e il suo vero volto è stato rivelato solo dopo l’arresto.
“Sono il quarto di sei figli e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi”, dettò a verbale Matteo, negli uffici della Squadra mobile di Trapani, il 30 giugno 1988, ascoltato come testimone nell’indagine per un omicidio.
Quello di cui non parlò fu la sua attività principale, quell’attività criminale del padre don Ciccio da lui ereditata in quel triangolo fra Castelvetrano, Marsala e Trapani. La contabilità ufficiale dei morti ammazzati coincide con almeno venti condanne all’ergastolo per altrettanti delitti, tra i quali quello del bambino Giuseppe Di Matteo, sequestrato e ammazzato per vendetta e per dare l’esempio, dopo il pentimento del padre Santino, uno dei manovali della strage di Capaci, e quello di un vice-direttore d’albergo in cui lavorava una ragazza austriaca di cui si era innamorato che si lamentava perché quel ragazzotto e i suoi amici frequentavano l’hotel infastidendola.
Il primo a indagare a scrivere il nome di Matteo Messina Denaro in un fascicolo d’indagine fu Paolo Borsellino nel 1989, quando era alla procura di Marsala. Proprio per questo il commissario di polizia, Rino Germanà iniziò a indagare su di lui. Così Matteo Messina Denaro accompagnato da Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, lo intercettarono sul lungomare di Mazara del Vallo e iniziarono a sparargli addosso.
Germanà si buttò in mare seguito dal Bagarella ma il suo Kalašnikov s’inceppò e, così, Germanà riuscì a salvarsi. Dopo quell’attentato il suo nome fu ufficialmente stato iscritto nella lista dei ricercati. Era il 2 giugno 1993.
Era in vacanza a Forte dei Marmi insieme con i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, altri due boss mafiosi di alto livello, in quel giugno 1993 ma da allora era sparito nel nulla, almeno per la giustizia italiana.
Era già diventato il capo di Cosa nostra nella provincia di Trapani, leader indiscusso delle nuove leve in quanto pupillo di Totò Riina e legato da amore fraterno con i fratelli Graviano.
La maggior parte dei suoi guadagni proveniva da estorsioni, smaltimento illegale dei rifiuti, riciclaggio di denaro, nuove risorse energetiche e dal traffico di stupefacenti ma, e soprattutto, dagli appalti, altra eredità di famiglia che possedeva il monopolio delle costruzioni nella provincia. Era controllato dai Messina Denaro il ciclo produttivo che ha portato all’edificazione di case abusive lungo la costa di Castelvetrano e Mazara del Vallo e, contemporaneamente, gli stessi Messina Denaro erano infiltrati nella aziende che producevano calcestruzzo, materiale fondamentale per le attività di costruzione.
Nel 1993, quando iniziò la latitanza che si chiuse solo trent’anni dopo, nei suoi confronti fu emesso un mandato di cattura per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materiale esplosivo, furto e altri reati minori.
Nel 2000 al maxi-processo “Omega” fu condannato in contumacia all’ergastolo e, il 21 ottobre 2020 fu condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Caltanissetta per essere stato uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio in cui vennero uccisi di giudici Falcone e Borsellino e le loro scorte, sentenza confermata nel luglio di quest’anno.
Abbiamo forse sconfitto Cosa nostra? No, senza dubbio. Quella della quale siamo stati testimoni è solo la morte di un uomo, forse non più adatto ai tempi attuali e il cui potere era già stato ridistribuito secondo dettami e logiche ben diverse da quelle del passato, non più familistiche ma strettamente legate a logiche imprenditoriali ed economiche perché, purtroppo, negli ultimi trent’anni abbiamo dimenticato quella lezione che fu prima di Boris Giuliano e poi di Giovanni Falcone, quel “follow the money” che, più che mai dovrebbe essere la strada da percorrere senza se e senza ma. Quella strada che dovrebbe essere accompagnata da un risveglio etico di tutta la società per il quale, purtroppo, i tempi non sembrano ancora maturi.
Immagine d’archivio, il momento dell’arresto