Zadie Smith, tirando in ballo Charles Dickens e degli scrittori di età vittoriana in un’intervista a Il Libraio firmata da Silvia Cannarsa, sostiene che “a quei tempi scrivere era ricreare il mondo tramite il linguaggio”, abilità che reputa non appaltabile a lei come a ogni altro autore coevo alla sua attività. Smith ha ragione – sebbene giochi di modestia, essendo lei tra i pochi personaggi in grado di vendere copie e parimenti aprire riflessioni che vadano oltre “il libro è fuori ora” o il repost della storia su Instagram.
Torniamo al punto. Il tema della complicata riproducibilità, della capacità di restituire verginità alle parole e alle narrazioni tramite linguaggi e atmosfere, in ultima istanza di “ricreare il mondo tramite il linguaggio”, è ciò che separa Nino Martoglio da chi Nino Martoglio non ci è nato. Il postulato della sempre brillante Smith bene si adagia sui vittoriani, certo; ma sarebbe impensabile non applicarne le strutture pure sul drammaturgo, poeta e giornalista nato a Belpasso nel 1870.
Nel passaggio de L’aria del continente (1915) in cui Don Cola e il delegato concionano sul luogo di nascita di una signorina danzatrice, presuntamente continentale ma a quanto pare nata a Carrapipi, pardon, Valguarnera Caropepe provincia di Caltanissetta, ci pascola tutto quello che noi siciliani abbiamo sempre canzonato in merito agli arripudduti, ai munzignari, a chi sopravvive col fumo negli occhi.
Non è un caso che proprio L’aria del continente sia una delle opere in dialetto siciliano più rappresentata di sempre, vieppiù in teatri non istituzionali che qualcuno, in possesso d’un vocabolario poco nutrito e di buona dose di snobismo, definirebbe amatoriali. Lo si precisa subito: anche in questo pezzo si ribadisce, come scritto altrove, quanto la “posa” abbia ridimensionato con violenza – sì, con violenza – la ricchezza e l’esplosività delle situazioni prodotte dalla drammaturgia di Martoglio. Uno irrequieto sin dall’adolescenza (destinato a diventare capitano di lungo corso, preferì catapultarsi nella redazione del giornale diretto dal padre Luigi, La Gazzetta di Catania), che ha scelto non tanto di raccontare le contraddizioni della nostra gente (lo fanno e lo facevano già tutti, sai che novità!) quanto la capacità della stessa di reagire alle sventure con inimitabile energia, ora lassa, ora scoppiettante.
Non è un caso, infatti, che il furore di interpreti non allevati (ok, amatoriali) riesca a tenere vivo il fuoco martogliano; poco frequentato da registi di garbo, le opere del drammaturgo arricchiscono i cartelloni di compagnie di second’ordine, di feste di paese, di allestimenti fané, di situazioni – ancora una volta – in cui diventa fisiologico rispecchiarsi in qualcosa che ci sintetizzi in tutta la nostra banale umanità.
Sempiterne vittime di pose, per secoli abbiamo ricercato la dicotomia tra l’alto e il basso (“se ami il cinema di Ann Hui o i racconti di Joseph Roth non puoi guardare i cinepanettoni”) o dragato a forza compiaciuti equilibri (“oggi leggo Marx, prima di dormire però recupero Temptation Island”) senza accorgerci che in fondo potevamo avere raffinatezza e pruderie solo leggendo (o guardando in scena) i due atti di Annata ricca massaru cuntentu (1921), dove l’erotismo si intreccia alla noia di tutti i giorni e, incarnandosi nei corpi dei vendemmiatori protagonisti, a una garbata riflessione di classe.
È stato questo, Martoglio, un altro di quei nomi che mastichiamo accontentandoci di evocarne l’arguzia e la pepata verve dei caratteri che ha scritto per la scena, senza tentare la profondità. Nino Martoglio ha saputo fotografare il casino che solo noi siciliani sappiamo creare con emblematico piglio e farne linguaggio, e non solo letteratura; di lui, nella prefazione alla raccolta poetica Centona, Luigi Pirandello scrisse che “è per la Sicilia quello ch’è il Di Giacomo e il Russo per Napoli; il Pascarella e Trilussa per Roma. (…) Voci native che dicono le cose della loro terra, come la loro terra vuole che siano dette per esser quelle e non altre, col sapore e il colore, l’aria, l’alito e l’odore con cui vivono veramente e si gustano e s’illuminano e respirano e palpitano lì soltanto e non altrove”.
Basterebbero queste parole per chiuderla qui. Pirandello, che con Martoglio firmò due commedie (‘A Vilanza e Cappiddazzu paga tuttu), è riuscito a cogliere dell’amico anche quel che superava la facile etichetta del verismo: il microcosmo riprodotto da Martoglio non si è mai guardato l’ombelico ma ha doppiato l’autoreferenzialità e le espressione più comoda di sé. Centona, che significa appunto casino, chiacchiericcio, buddellu, racchiude uno e centomila siciliani che parlano di lavoro, di amore e di menzogne, come in fondo capita alle scritture di Martoglio (“Mamma, chi veni a diri ‘nnamuratu? – …Vôldiri… un omu ca si fa l’amuri. – E amuri chi vôldiri? – … È un gran piccatu; è ‘na bugia di l’omu tradituri!”, da L’ Amuri, in Centona).
Martoglio, irrequieto e fecondo, è stato tante cose. Un uomo di teatro, fondatore nel 1901 della Compagnia Drammatica Siciliana (che schiera interpreti come Giovanni Grasso, Virginia Balistrieri e Giacinta Pezzana), autore per Angelo Musco e la sua compagnia di farse memorabili come la stra-rappresentata San Giuvanni Decullatu (1908, poi diventata anche un film con Totò nel 1940), padre di quattro figli e marito di Elvira Schiavazzi, sposata dopo il rocambolesco amore con Amalia Torresi, osteggiato – si parla anche di un duello con il di lei fratello Francesco! – dalla famiglia della donna che poco gradiva la vicinanza di Nino al sindacalista Giuseppe De Felice Giuffrida. Nino Martoglio ebbe modo di frequentare anche il cinema, prima come soggettista e in seguito anche regista per la Morgana di tre film, incluso un adattamento di Teresa Raquin da Zola, girato nel 1915.
Impensabile condensare tutto in un solo pezzo, così come sarebbe poco saggio trascurare l’alone di mistero che circonda la sua morte nel 1921, quando scivolò nella tromba dell’ascensore dell’Ospedale Vittorio Emanuele di Catania. Sulla tragica morte dello scrittore, che si trovava nel nosocomio in visita a uno dei figli, malato di paratifo, si sono aperte diverse piste circonfuse da qualcosa che archivia il mero complottismo; a un secolo dall’accaduto si sono interrogati, sul decesso, registi come Elio Gimbo e giornalisti come Luciano Mirone, che non si sono mai accontentati della grossolana gestione del caso all’epoca.
La morte, in un’area ancora in allestimento dell’ospedale, lascia intendere che ci fosse una sapiente regia che avrebbe predisposto un’aggressione all’autore per poi simulare l’incidente. Se Gimbo, nel suo Le tre porte (Villaggio Maori) si concentra sulle lacune delle documentazioni recuperando antichi fascicoli giudiziari e ricostruendo certosinamente la scena dell’incidente, Mirone (Il Caso Martoglio) si interroga su alcune analogie con l’imminente omicidio di Giacomo Matteotti da parte dei fascisti (si consiglia di leggere entrambi per saperne di più).
La vita, in fondo, è questione di luci e ombre, di (in)giustizia e misteri; nel caso di Martoglio, però, e collegandolo a Zadie Smith e ai suoi pareri sui vittoriani, c’è la straordinaria capacità di fecondare linguaggio, di tratteggiare anime, di dipingerci noi tutti siciliani, nella vivacità e nell’amarezza, anche quando non ricordiamo di esserlo. In fondo, a uno scrittore, basterebbe solo questo per rendersi memorabile.