Sanità

Le jeux sont faits: la bisca controllata dai clan Santapaola, Cappello e Mazzei

Il classico tavolo da poker, una tradizionale zecchinetta, l’idea chemin de fer. La passione di Cosa nostra per il gioco d’azzardo attraversa la storia della criminalità organizzata. Un fenomeno riscontrato a qualsiasi latitudine, in Europa come Oltreoceano, e che trova spazio anche nell’inchiesta Oleandro che negli scorsi giorni, a Catania, ha portato all’arresto di diversi esponenti del gruppo di Picanello legato alla famiglia Santapaola-Ercolano.

Intercettando gli uomini che in periodi diversi sarebbero stati guidati da Carmelo Salemi e Peppe Russo – detto curiosamente “il giornalista” pur non avendo nulla a che fare con il mondo dell’informazione – i militari del Gico hanno raccolto diversi elementi che portano a pensare che tra i canali di finanziamento delle cosche continuano a esserci le carte da gioco anche nell’epoca in cui pullulano i centri scommesse. E così se riguardo a questi ultimi nell’inchiesta torna a comparire la figura di Antonio Padovani – seppure il suo nome non rientri tra quelli per cui la procura ha chiesto la misura cautelare –, il re delle puntate in passato già più volte finito sotto la lente dei magistrati, un capitolo dell’ordinanza è dedicata all’esistenza di alcune bische clandestine.

Gioco d’azzardo e mafia, l’accordo tra i clan

A sedere ai tavoli da gioco, in alcuni casi organizzati in una residenza con piscina, sarebbero stati in molti. Gli indagati fanno rifermento ai giocatori in alcuni casi con i nomi di battesimo, altre volte con i soprannomi, in qualche caso citandone la professione come nel caso di un presunto avvocato. Altrettanto variegate sarebbero state le organizzazioni criminali che ne avrebbero tratto guadagno. Stando a quanto dichiarato da Giuseppe Gambadoro, uno degli arrestati dell’operazione Oleandro, i profitti di una bisca in cui si giocava alla zecchinetta venivano spartiti tra “Cappello, Carcagnusi (Mazzei, ndr), Santapaola”.

Gli uomini del clan avrebbero fatto da supervisori e organizzatori degli incontri, in cui non mancava il servizio bar affidato a un uomo a cui sarebbe andata una piccola parte degli utili anche per l’impegno nel trovare nuovi giocatori. Il giro di soldi sarebbe stato vorticoso: c’è chi sarebbe stato solito puntare anche migliaia di euro e chi, pur dichiarando di non avere denaro, alla fine sarebbe stato comunque un cliente affezionato. Con il risultato di accumulare importanti debiti: nelle intercettazioni si menzionano cifre fino a 40mila euro.

La solvibilità dei clienti

Tra le figure di riferimento del clan nell’ambito della gestione del gioco d’azzardo ci sarebbe stato Nino Alecci. È a lui che Carmelo Salemi – ritenuto per un periodo il capo del gruppo – avrebbe dichiarato di voler chiedere l’approvazione in merito all’intenzione di organizzare un tavolo da gioco per lo chemin de fer. Ed è nei confronti di Alecci che Giuseppe Gambadoro avrebbe covato dei malumori per il mancato riconoscimento del proprio impegno, sia sul fronte dell’individuazione dei possibili clienti da introdurre nelle bische che per lo studio del loro profilo.

Al pari di un’agenzia di rating, Gambadoro si sarebbe infatti occupato della capacità dei partecipanti di onorare i debiti contratti e, di conseguenza, stabilire la linea di credito di cui potevano beneficiare: “Gambadoro – scrive la gip – si lamentava con Salemi perché, nonostante avesse lavorato per un anno per procurare giocatori e valutare la loro solvibilità per una casa da gioco clandestina, non aveva ricevuto la sua quota di guadagno, che ammontava a circa tre-quattromila euro. Sottolineava – si legge nell’ordinanza – che non aveva ricevuto alcun anticipo per le festività natalizie, nonostante la cassa della bisca avesse un saldo positivo di circa 50mila euro”.

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