ROMA – Quella di Robin Hood era lotta di classe, almeno secondo la leggenda: l’arciere della foresta di Sherwood, infatti – vedendo le sue terre sequestrate dallo sceriffo di Nottingham – aveva preso a difendere i diritti degli oppressi “togliendo ai ricchi per dare ai poveri”. Oggi in Italia un personaggio così avrebbe molto da fare e la ragione è contenuta nell’ultimo rapporto di Oxfam Italia 2024 dal titolo “Disuguaglianze: il potere a servizio dei pochi”, secondo cui l’1% più ricco della popolazione, a fine 2022, deteneva una ricchezza 84 volte superiore a quella del 20% più povero. Ma c’è di più.
Nel corso del 2023, in Italia, è cresciuto il numero dei multimilionari e sono aumentati i loro patrimoni. Si è ampliato di 11.830 unità l’insieme dei titolari di patrimoni superiori a 5 milioni di dollari (passati da 80.880 a 92.710). Il valore dei loro asset è lievitato di 178 miliardi di dollari in termini reali nell’ultimo anno. Gli italiani titolari di risorse superiori a 50 milioni di dollari sono aumentati nel corso del 2023 di 690 unità (passando da 4.705 a 5.395) e i loro “tesori” sono cresciuti, su base annua, di 79 miliardi di dollari in termini reali. Oxfam Italia, a partire da questi dati, confronta le consistenze patrimoniali dei diversi gruppi della popolazione italiana alla fine del 2022 e ne viene fuori che il 10% più ricco possedeva oltre 6,7 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione (il rapporto era pari a 6,3 nel 2021) e cioè che il 5% più ricco possedeva più del 30% dello stock di ricchezza detenuta dall’80% più povero.
Se quindi aumentano i super ricchi, dall’altra parte della medaglia – che tutto è fuorché d’oro – i poveri sono sempre di più e stanno sempre peggio. Le ultime stime di Credit Suisse-Ubs sono relative alla fine del 2022 e fotografano ampi squilibri nella distribuzione della ricchezza nazionale netta, acuiti a partire dal secondo decennio del nuovo millennio. Ricostruiamo le fette di questa torta (di disuguaglianze): a fine 2022, il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre 2/3 della ricchezza nazionale (68,9%); il successivo 20% (quarto quintile) era titolare del 17,7% della ricchezza nazionale; il 60% più povero deteneva appena il 13,5% della ricchezza nazionale. Il retrogusto che rimane di questa torta è tutt’altro che dolce: quello che resta è uno squilibrio allarmante di detenzione delle ricchezze.
La “curva” della distribuzione dei redditi ha anche una caratteristica temporale: il calo si è registrato tra il 2008 e il 2010 per poi arrivare a un picco di rialzo del 23,3% nel 2021, confermato poi nel 2022. I miliardari italiani dall’inizio della pandemia fino al mese di novembre 2023 sono aumentati di 27 unità (passando da 36 a 63) e il valore dei loro patrimoni (217,6 miliardi di dollari a fine 2023) è cresciuto in termini reali di oltre 68 miliardi di dollari (+46%). Nel corso del 2023 è pure cresciuto il numero dei multimilionari italiani e, con loro, anche l’importo dei patrimoni posseduti. Si sono aggiunti 11.830 titolari che detengono più di 5 milioni di dollari (sono passati da 80.880 a 92.710). Il valore dei loro patrimoni è lievitato di 178 miliardi di dollari nell’ultimo anno e gli italiani titolari di patrimoni superiori a 50 milioni di dollari sono aumentati nel corso del 2023 di 690 unità (passando da 4.705 a 5.395) e i loro patrimoni sono cresciuti, su base annua, di 79 miliardi di dollari in termini reali.
Del resto, non siamo un caso isolato: in tutto il mondo è questa la tendenza. Dall’inizio della pandemia i 5 uomini più ricchi al mondo hanno più che raddoppiato le proprie fortune, a un ritmo di 14 milioni di dollari all’ora, mentre la ricchezza aggregata di quasi 5 miliardi delle persone più povere non ha mostrato barlumi di crescita. Ai ritmi attuali, secondo Oxfam, nel giro di un decennio potremmo avere il primo trilionario della storia dell’umanità, ma ci vorranno oltre due secoli (230 anni) per porre fine alla povertà.
Torniamo a “casa nostra”. Nel nostro Paese le disuguaglianze si intrecciano e uno dei fattori è, chiaramente, quello geografico. La Questione meridionale, che deve diventare ormai nazionale, incide in questo inquietante quadro. La cartina al tornasole viene dagli ultimi dati Svimez: l’inflazione del 2022 si è tradotta in un calo del potere d’acquisto differenziato su base territoriale, colpendo con maggiore intensità le famiglie a basso reddito, prevalentemente concentrate al Sud: un calo del 2,9% del reddito delle famiglie meridionali, oltre il doppio del dato del Centro-Nord (–1,2%).
La situazione occupazionale, in questo senso, è importante ma non argina del tutto il disagio sociale perché la vulnerabilità del mercato del lavoro al Sud resta su livelli patologici: quasi quattro lavoratori su dieci nel Mezzogiorno ha un’occupazione a termine: 22,9% contro il 14% nel Centro-Nord. Inoltre il 23% dei lavoratori a termine al Sud lo è da almeno cinque anni (il 13,7% nel Centro-Nord) e oltre l’1,5 milioni (il 15,3% contro l’8,4 del Centro-Nord) è retribuito con bassi salari (inferiori al 60% del reddito mediano equivalente). Più povertà, meno sviluppo: secondo stime Svimez, nel 2025, la crescita del Pil meridionale dovrebbe risultare 4 decimi di punto al di sotto del dato del Centro-Nord: +0,9% a fronte del +1,3.
Ecco spiegata non solo, quindi, la differenza tra i pochi ricchi e i tanti poveri, ma anche quella tra poveri di serie A e di serie B: la differenza di opportunità individuali e collettive che incide su diversi modelli di cittadinanza – ingiustamente prestabiliti in base alla condizione di partenza sociale e geografica – è la dimensione delle periferie esistenziali, dove incidono l’appartenenza sociale e il grado di sviluppo del territorio.
ROMA – Il quadro descritto nell’articolo precedente desta quindi notevoli preoccupazioni per il futuro del nostro Paese. Ne abbiamo discusso con Gianfranco Viesti, professore ordinario di Economia dell’Università degli Studi di Bari, per capire che effetto le misure attualmente al centro del discorso politico odierno, possano avere sui dati che abbiamo illustrato.
Viviamo in prima linea la forbice di disuguaglianze, chi viene più colpito da questa differenza di distribuzione della ricchezza?
“Ci sono molti dati che mostrano che in Italia il livello delle disuguaglianze è sensibile. Abbiamo un aumento delle disuguaglianze di reddito e un aumento di disuguaglianze, ancora più forte, di ricchezza delle famiglie. Questo è un fenomeno che accade nei nostri Paesi e in altre nazioni europee e dipende dall’indirizzo delle politiche complessive che sono diventate molto più lasche nella tassazione di chi ha alti redditi o cospicui patrimoni: cioè ha portato a livelli di disuguaglianza piuttosto alti rispetto ai decenni precedenti. Le regioni meno sviluppate hanno un indice di disuguaglianza maggiore: non perché ci siano molti ricchi ma perché ci sono molti poveri. La presenza di strati di popolazione a basso reddito, quindi di famiglie con un occupato saltuario o addirittura senza nessun occupato, rende la distanza tra chi guadagna di più e chi guadagna molto forte. Queste fasce sociali di solito hanno zero patrimonio: le famiglie più in difficoltà in Italia sono le famiglie senza abitazione, che quindi devono pagare anche l’affitto e anche questo contribuisce a spiegare le differenze”.
In che misura la precarietà lavorativa incide?
“Questi sono temi nei confronti di cui non c’è una formula magica, ma un insieme di misure: dalle politiche economiche a quelle sulle tassazioni fino agli interventi per le fasce più deboli, quindi Rdc o simili, che possono incidere. Se si accresce il tasso di occupazione nelle aree più deboli del Paese si va ovviamente nella direzione giusta, ma non dobbiamo commettere l’errore di pensare che il problema sia unicamente il lavoro. In primo luogo esistono livelli salariali estremamente contenuti e forme di lavoro saltuario per cui in Italia, e in particolare al Sud, abbiamo un fenomeno significativo di lavoratori poveri, ovvero persone che anche se lavorano rientrano in nuclei familiari al di sotto della soglia di povertà. Ecco perché il lavoro è importante ma non è l’unica soluzione, anche perché se non si interviene sulle disuguaglianze di trattamento e di stipendio nella società, dare soltanto il lavoro a chi non ce l’ha risolve parzialmente il problema”.
Come si inserisce in questo quadro di disuguaglianze l’Autonomia differenziata?
“L’Autonomia differenziata non c’entra in maniera specifica con questo tema, ma è importante perché fa parte, più in generale, di un approccio politico alla questione delle disuguaglianze in base a cui anche i servizi pubblici e i diritti di cittadinanza possono essere in qualche modo collegati al reddito dei territori in cui si vive. Le misure dell’Autonomia differenziata nascono da un progetto di società all’interno della quale le disuguaglianze possono essere accettate e anzi, i servizi vanno organizzati in modo da dare di più a chi vive in luoghi maggiormente sviluppati. Le condizioni di vita dipendono dalla situazione degli individui: se io lavoro o no, quanto guadagno, quante persone della famiglia devo mantenere col mio stipendio. Ma gli individui vivono in luoghi diversi e quindi le condizioni dell’ambiente in cui vivono influenzano anche il loro complessivo tenore di vita, al di là di quanto guadagnano. Se in un territorio c’è il tempo pieno a scuola, le donne devono farsi meno carico della cura dei figli nel pomeriggio, quindi possono anche avere più occasioni di lavoro. Se la sanità è male organizzata, devo ricorrere al privato per accertamenti e questo peggiora le condizioni di vita. E così via. Le condizioni delle persone, come singoli, che vivono sui territori, vanno lette insieme e sono due facce della stessa medaglia”.
Le Zes possono aiutare a uscire da questo pantano?
“Si tratta di un credito d’imposta a pioggia per tutte le imprese del Sud, largamente già esistente, quindi non mi pare che sia una misura forte. Ho molti dubbi anche sul fatto che avviare investimenti a pioggia in favore delle imprese possa essere una misura decisiva per migliorare le condizioni complessive dei territori. Se non si investe in infrastrutture e servizi pubblici il semplice finanziamento, estremamente costoso, alle imprese può non essere un elemento fondamentale”.
Qual è quindi la ricetta per ridurre il divario tra Nord e Sud?
“Ci vuole l’economico, ma ci vuole anche il sociale: questa è la ricetta. Per migliorare le condizioni delle persone servono tanti interventi di tipo strettamente economico, come la creazione di posti di lavoro, ma al tempo stesso servono interventi di tipo sociale: il tempo pieno nelle scuole, gli asili nido, una migliore sanità territoriale e un trasporto pubblico più efficiente. La prima cosa non determina automaticamente l’altra, per questo non esiste la bacchetta magica. Occorre quindi suonare contemporaneamente due tasti diversi”.