“Sulle pensioni siamo a dove eravamo rimasti”. Le sconfortanti parole pronunciate qualche giorno fa dal segretario della Uil, Pierpaolo Bombardieri, confermano che non si registrano avanzamenti concreti sul fronte della riforma del sistema pensionistico italiano. Eppure, la sua sostenibilità non può più essere considerata un auspicio ma un imperativo categorico perché un sistema che non ha solide fondamenta è destinato a collassare. Ed è un po’ quello che presto o tardi accadrà alla spesa pensionistica se non si pone un freno ad una emorragia di uscite che superano le entrate.
“Il fantomatico tavolo” (ribattezzato così dai sindacati) nato col preciso intento di avviare un confronto tra governo e parti sociali per ragionare su un cambio di direzione da operare e che anche l’Ocse ha auspicato di recente, di fatto non ha portato a nulla di nuovo o di concreto.
Di concreto, ad oggi, ci sono solo i numeri forniti dall’Inps.
Una su cinquanta ce la fa, verrebbe da dire (con ironia). Le pensioni d’oro in Italia superano infatti quota 2 per cento del totale: su 22.772.004 pensioni erogate nell’anno 2022 – ultimo dato disponibile rilevato dal report Inps “Prestazioni pensionistiche e beneficiari del sistema pensionistico italiano al 31.12.2022” – le cosiddette “d’oro” – vale a dire gli assegni da 4.000 euro mensili a salire – sono 523.869. Il 2,3 per cento del totale che, tradotto in euro, vuol dire oltre 2 miliardi. Un dato al ribasso perché nel citato report, l’Inps fornisce il numero di pensioni in rapporto alla classe di importo mensile le quali sono suddivise in undici scaglioni: “fino a 499,99” euro, “500,00 – 999,99” euro, 1.000,00 – 1499,99 euro, e così via fino ad arrivare all’ultima, “5.000,00 e più”.
Moltiplicando il numero di pensioni relative alle fasce di importo superiori a 4.000 euro per la cifra più bassa della classe di importo mensile arriviamo a 2.417.920.500 euro. Per intenderci: il numero di pensioni che rientrano nella classe “4.000,00 – 4.499,99” sono 138.081. Abbiamo quindi moltiplicato quest’ultimo dato per 4.000 euro ed è venuta fuori una stima – 552.324.000 euro – che, appunto, è al ribasso. Facendo questa operazione per le altre fasce si arriva a un totale di più di 2 miliardi.
Una piccola precisazione è d’obbligo: parliamo di pensioni e non di pensionati perché questi ultimi nel 2022 erano 16.131.414. La differenza fra i due dati – numero di pensioni e numero di pensionati – è legata al fatto che un pensionato gode in media di 1,32 pensioni, mentre per le donne il dato medio di pensioni percepite è di 1,5.
Quello pensionistico è un sistema che spende più di quello che introita: è facile intuire che a queste condizioni un qualunque sistema non può reggere a lungo. L’ultima “bacchettata” è arrivata appena qualche settimana fa dall’Ocse: in Italia, si legge nel rapporto economico sull’Italia pubblicato lo scorso 22 gennaio dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico “il debito pubblico, quale percentuale del Pil, è tra i più elevati dell’Ocse. Viste le forti pressioni sul bilancio all’orizzonte, occorrono riforme fiscali e della spesa per contribuire a portare il debito su un percorso più prudente”.
Proprio in merito al tema delle riforme sulla spesa l’organismo parigino è intervenuto a gamba tesa, sottolineando anche la necessità di “eliminare gradualmente i regimi di pensionamento anticipato”, come già fatto con Quota 100: “Riducendo la generosità delle pensioni per le famiglie a reddito più elevato, si potrebbe limitare l’incremento della spesa, mantenendo allo stesso tempo adeguati servizi pubblici e protezione sociale”.
Ad oggi, però la situazione è ben lontana da quella auspicata dall’Ocse: secondo il Def 2023, la spesa pensionistica, dopo essersi ragguagliata a quasi 297 miliardi nel 2022 (con una crescita del 3,7 per cento annuo) accelera nel 2023 e nel 2024 (+4,4 e +5,7 per cento, rispettivamente). “In assenza di variazioni delle politiche, il rapporto debito/Pil andrà ad aumentare”, avverte l’Ocse aggiungendo che “per riportare il rapporto debito/Pil su un percorso più prudente, sostenere i costi futuri e rispettare le regole fiscali europee, sarà necessario un duraturo aggiustamento di bilancio”.
Anche i dati pubblicati dall’Ufficio previdenza della Cgil nazionale non promettono nulla di buono: “Se secondo i dati Istat i salari nel biennio sono cresciuti del 4,4%, nello stesso periodo l’importo soglia per l’accesso alla pensione nel sistema contributivo (assegno sociale) è cresciuto del 13,5%: vi è quindi una differenza del 9,1% che si traduce in una perdita secca sia di potere di acquisto che dell’ammontare della pensione”, sottolinea il responsabile Previdenza della Confederazione Ezio Cigna.
“Come se non bastasse – prosegue – l’Esecutivo ha deciso di portare il requisito di accesso alla pensione anticipata con 64 anni di età e almeno 20 di contributi, a 3 volte l’importo dell’assegno sociale, e dal 1° gennaio di quest’anno i requisiti di accesso a 64 anni cambiano radicalmente. Se nel 2022 bastavano 1.309,42 euro per accedere al pensionamento anticipato, adesso ne serviranno 1.603,23, con una differenza nel biennio pari a 293.81 euro, il 22,4% in più”.
Nell’analisi l’Ufficio previdenza della Cgil si è chiesto quanti contributi sarebbero necessari per determinare un aumento della pensione contributiva di 293,81 euro: “Considerando il coefficiente di trasformazione in vigore attualmente a 64 anni pari a 5,184 abbiamo calcolato che sarebbero necessari 74.000 euro di contributi. Considerando l’aliquota previdenziale al 33%, per accantonare tale importo di contributi bisognerebbe avere retribuzioni per 224.500 euro. Per perfezionare il nuovo requisito, dal 2024 almeno 3 volte l’assegno sociale, pari a 1.603,23 euro, bisognerà quindi raggiungere un montante contributivo pari a 402.500 euro, una cifra impossibile per la maggioranza dei giovani”.
Questo sistema inoltre penalizza i più poveri, come si evince dagli esempi fatti nell’Analisi allegata: un lavoratore con una retribuzione di 5.000 euro lordi per 12 mesi che ha lavorato per 20 anni, accantonando una pensione a 64 anni pari a 1.620 euro, potrà andare in pensione anticipata, mentre una lavoratrice delle pulizie che lavora part time 6 ore al giorno con una retribuzione di 600 euro al mese per 13 mesi (7800 euro annui) maturerà una pensione di 440 euro lorde, quindi non potrà accedere alla pensione anticipata.
Non potrà neanche accedere a quella di vecchiaia a 67 anni e 20 anni di contribuzione, visto che non riuscirebbe a maturare nemmeno la soglia prevista nell’ultima legge di bilancio, nel 2024 pari a una volta l’importo dell’assegno sociale, ossia 534 euro.
Lo abbiamo denunciato il 30 settembre scorso nell’inchiesta “Pensioni, i contributi non bastano: nel 2021 i cittadini hanno sborsato 54 mld”, dove avevamo sviscerato la Relazione della Corte dei conti sul risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria dell’Inps relativo all’anno 2021, pubblicata con determinazione n. 89 del 25 luglio 2023.
“Nel lungo periodo – mettono nero su bianco i magistrati contabili della Sezione del Controllo sugli Enti – la spesa pensionistica lorda è sempre meno compensata dalle entrate”.
Secondo le proiezioni riportate nella Relazione, nel 2046 resterà “a carico della fiscalità generale il 31 per cento dell’intera spesa pensionistica”. Un valore che esprime l’insostenibilità di un sistema nel quale i conti non tornano: le entrate contributive riscosse nel 2021 (pari a 232 miliardi di euro) sono infatti nettamente inferiori alle uscite (286 miliardi di euro di spesa per le pensioni), con un onere per lo Stato di 54 miliardi di euro.
Dalla Relazione sulla gestione finanziaria dell’Inps, oltre a quanto già approfondito, emerge un’altra questione di non poco conto e cioè il costo dell’ente preposto a gestisce la quasi totalità della previdenza italiana, l’Inps. All’imponente spesa per il sistema pensionistico, infatti, va aggiunta quella di funzionamento dell’Istituto, all’interno della quale rientrano le uscite per gli organi – comprensiva di quella per l’Oiv – che si attestano, nel 2021, sui 2,9 milioni, gli oneri per il personale in attività di servizio (1,639 miliardi) e quelli per l’acquisto di beni di consumo e di servizi (731 milioni). A queste vanno aggiunti i trasferimenti passivi, gli oneri tributari, le spese per il personale in quiescenza e le uscite non classificabili: si arriva così a un totale di 3,4 miliardi.