Giustizia

Processo Lombardo, “Non ci fu alcun patto politico – mafioso”

“Non c’è mai stato alcun patto politico-mafioso”.

Lo ha ripetuto più volte, scandendo lentamente le parole, l’avvocato Maria Licata, che ieri, nel processo a porte chiuse perché si celebra con il rito abbreviato, ha proseguito l’arringa difensiva nel processo d’appello a carico dell’ex Presidente della Regione siciliana, Raffaele Lombardo, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio politico-mafioso.

Il nuovo processo di appello scaturisce dalla decisione della Corte della Cassazione di annullare, nel 2018, con rinvio, la sentenza del procedimento di secondo grado, emessa l’anno prima, terminata con l’assoluzione di Lombardo dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e la condanna a due anni – pena sospesa – per corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso, ma senza intimidazione e violenza.

Una sentenza, quella di secondo grado, che a sua volta aveva riformato quella emessa il 19 febbraio 2014, con il rito abbreviato, dal Gup Marina Rizza che lo aveva condannato a sei anni e otto mesi per concorso esterno.

“C’è la prova piena, documentale e dichiarativa dell’assenza dell’asserito patto politico mafioso”, ha spiegato Maria Licata, che difende l’ex Governatore con l’avvocato Vincenzo Maiello.
Nel corso dell’udienza ha parlato più volte di un “mosaico scomposto” dell’accusa ricordando le parole delle due pm – Agata Santonocito e Sabrina Gambino – durante la requisitoria. L’accusa aveva parlato appunto di “tasselli di un mosaico”, ma l’avvocato Licata ha ribattito che “un processo non è un mosaico, non è una opera d’arte: la sentenza di un processo deve rassegnare una verità che, volendo usare una metafora, dev’essere una fotografia. Ma non una fotografia sfocata, deve essere precisa. Perché una fotografia sfocata non va bene”.

Al termine della requisitoria, la Procura generale di Catania, lo scorso due febbraio, aveva chiesto la condanna a sette anni e quattro mesi di carcere per l’ex Governatore.

L’avvocato Licata, nella sua arringa, ha sottolineato con forza che “il collaboratore di giustizia Dario Caruana è inattendibile” e le sue dichiarazioni “sono nebulose e generiche” e “prive di riscontri”, citando, in particolare, un episodio raccontato dal pentito: all’inizio del 2003 si sarebbe tenuta in una casa di campagna alle porte di Barrafranca, piccolo centro dell’Ennese, una riunione riservata, in cui sarebbero stati affrontati diversi argomenti da appalti ad affari. L’incontro sarebbe avvenuto alla presenza del vecchio boss Ciccio La Rocca, del capomafia ennese Raffaele Bevilacqua e del colonnello di Cosa nostra catanese, nel frattempo deceduto, Alfio Mirabile. Il pentito Caruana avrebbe accompagnato quest’ultimo all’appuntamento, ma sarebbe rimasto fuori “a vigilare” l’ingresso.

Per l’avvocato Licata, però, quell’incontro di cui parla il pentito “non è mai avvenuto”, “non lascia traccia” e le dichiarazioni di Caruana sono “prive di riscontro, intrinseco ed estrinseco”.

La Difesa ha evidenziato, per esempio, come nei tabulati telefonici del cellulare in quel periodo usato da Raffaele Lombardo non ci sia alcuna cella d’aggancio con quella zona.

Anche Rosario Di Dio – altro pentito che accusa Lombardo, con fratelli Paolo e Giuseppe Mirabile, Francesco Squillaci e Alfredo Palio – sarebbe “inattendibile”, perché “dice di avercela a morte con l’imputato: aveva chiesto una raccomandazione per il figlio e nessuno ha mai dato seguito a quella richiesta”.

Il processo è stato rinviato al prossimo 27 aprile per la conclusione delle arringhe difensive.