CATANIA – L’emergenza sanitaria ha comportato un esponenziale incremento della digitalizzazione e del lavoro agile in Italia. Secondo l’Istat, a gennaio e febbraio 2020, escludendo le imprese con mansioni impossibili da svolgere da remoto, solo l’1,2% del personale era impiegato in lavoro a distanza. Tra marzo e aprile questa quota è salita all’8,8%. L’incidenza dello smart working è salita al 21,6% nelle imprese di medie dimensioni (dal 2,2% di gennaio/febbraio), mentre nelle grandi fino al 31,4% (contro il 4,4% dei primi due mesi dell’anno).
I settori più coinvolti sono i servizi di informazione e comunicazione (da 5,0% a 48,8%), le attività professionali, scientifiche e tecniche (da 4,1% a 36,7%), l’istruzione (da 3,1% a 33,0%) e la fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata (da 3,3% a 29,6%).
Ma la possibilità di lavorare in remoto consente ai residenti al Sud di essere impiegati in aziende del Nord o di altri Paesi, pur rimanendo nella terra natìa e contribuendo alla crescita della stessa. Senza considerare che molte donne, grazie allo smart working, potrebbero non dover sacrificare la voglia di maternità o di successo nel mondo del lavoro.
“Mi sono laureato nel 2010 e mi sono subito trasferito a Milano per lavorare per Accenture, multinazionale americana. Usufruivo del remote working per due giorni settimanali già prima dell’emergenza sanitaria, ma da fine febbraio è stato esteso all’intera settimana – chiosa Paolo Amato, ingegnere informatico -. Quando è cominciato il lockdown mi trovavo già in Sicilia, dove sono rimasto, dopo anni trascorsi a sopprimere la voglia di recuperare le mie radici. Adesso mi sento molto felice: ho più tempo per i miei hobby che per 10 anni avevo trascurato, amo il mio lavoro senza tutti quei ‘ma’ che prima suscitavano in me un’intermittente avversione e che hanno comportato l’abbandono dell’azienda da parte di molti miei colleghi. A mio avviso l’azienda ha aumentato la qualità del lavoro e la sua produttività, grazie agli strumenti tecnologici a disposizione (Skype, Microsoft Teams) e ai meeting giornalieri”.
Secondo l’Istat, dopo la fine del lockdown la quota di lavoratori impiegati a distanza – pur in declino – resta significativa (5,3%), soprattutto nelle grandi e medie imprese (25,1% e 16,2%). E l’ingegnere Amato spera che questa direzione venga supportata dalla classe dirigente: “Per le aziende come la nostra che lavorano per obiettivi, il problema delle possibili ‘furberie’ dell’impiegato non esistono, nonostante oggi si possa benissimo verificare la connessione dell’utente in qualsiasi momento – continua -. Per la visibilità che ho io delle dinamiche interne del team, con il remote working Accenture non ha variato il numero del personale, ma ha rinnovato i contratti in scadenza ed è riuscita a soddisfare appieno i suoi clienti. A settembre sapremo se ci sarà necessità di tornare a Milano; a parer mio questa modalità di lavoro verrà utilizzata in modo sempre più massiccio. Il Governo dovrebbe intervenire per farlo diventare un diritto; io sarei disposto a perdere gli straordinari, evitando però tutte quelle ore inutili riservate agli spostamenti”.
Secondo gli Osservatori Digital Innovation ci sarebbe parecchia confusione in tema di smart working e la sua sovrapposizione con il telelavoro o il lavoro da remoto sarebbe erronea. Il telelavoro, consisterebbe in una diversa forma contrattuale, con regole rigide (orari, luoghi, strumenti tecnologici stabiliti); lo smart working o lavoro agile – regolato dalla legge n. 81 del 22 maggio 2017 – rappresenterebbe un accordo tra lavoratore e organizzatore all’interno del rapporto di lavoro subordinato, consistendo in una sostanziale flessibilità e autonomia. Quest’ultima forma metterebbe al centro il benessere e la produttività del dipendente, riducendo anche le emissioni, in conformità con le linee dettate dall’Ue.
Alcune mansioni sono impossibili da svolgere “in remoto”, si pensi alla produzione industriale. Altre sono “delocalizzabili” solo parzialmente. Ecco che il modello ibrido potrebbe ben rispondere anche a queste ultime esigenze.
“Da quando è cominciata l’emergenza sanitaria, la mia azienda ha deciso forme di lavoro ibrido strutturale, in via continuativa. Un esperimento andato a buon fine che però talvolta può far venir meno il senso di comunità – afferma un avvocato catanese impiegato alla Banca d’Italia di Roma -. Esistono alcuni settori in cui il lavoro in remoto non può garantire la stessa produttività e l’avvocatura è uno di questi, esigendo strutture segretariali e biblioteche. Non sento troppa nostalgia della Sicilia, ma solo perché il mio impiego mi porta a seguire molte cause regionali e quindi, di fatto, a trascorrere molto tempo nella mia terra. Il modello ibrido è un valido compromesso che consente quasi tutti i benefici dello smart working, senza far venir meno la produttività aziendale”.
Lo smart working può favorire al Sud un ritorno economico non indifferente: “Quando mi trovo nella mia terra, acquisto i suoi prodotti e creo indotto per il territorio”. È in quest’ottica che Cristoforo Grasso – giovane laureato in Economia all’Università di Catania e impiegato all’Unicredit di Milano – valuta il tema del lavoro in remoto.
“Già prima dell’emergenza sanitaria Unicredit prevedeva per i dipendenti la possibilità di svolgere il loro lavoro da casa per un giorno alla settimana. Ma durante il lockdown questa modalità è stata estesa all’intero full time. Le aziende stanno spesso risparmiando sui costi fissi e addirittura incrementato la loro produttività, eliminando i cosiddetti ‘tempi morti’ dalla giornata degli impiegati – chiosa Grasso -. Lo smartworking consente al dipendente un maggiore equilibrio tra vita privata e vita lavorativa e al Sud di non perdere risorse preziose per la sua crescita. Però si assiste a un’incredibile anomalia: sento molti amministratori del Nord preoccupati del fatto che il remote working possa trapiantare meno ‘cervelli’ provenienti dal Sud o farli tornare indietro, con tutte le ripercussioni economiche del caso per il territorio, ma non ho sentito nessun amministratore del Sud contento della nuova opportunità e consapevole di dover spingere in questa direzione”.
Il presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria Sicilia, Gero La Rocca, spiega al Quotidiano di Sicilia pro e contro dello smart working
Opportunità da approfondire per contrastare la strage generazionale ma occorre prima creare il lavoro, poi renderlo “smart”
“Non deve essere visto banalmente come lavoro da casa ma come ripensamento innovativo del rapporto tra collaboratore e azienda”
PALERMO – Il presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria Sicilia – Gero La Rocca – spiega in un’intervista esclusiva al Quotidiano di Sicilia pro e contro dello smart working per lavoratori e imprese. E auspica un cambiamento burocratico radicale affinché la regione possa prendere il volo e incrementare il suo tasso di occupazione.
Esistono importanti incentivi per chi volesse trasferirsi in un Comune siciliano con meno di 20mila abitanti e tanti giovani sparsi per il mondo che lavorano da remoto per importanti aziende di fama mondiale, fisicamente lontane dal luogo in cui rimangono domiciliati. I giovani della nostra terra, invece, continuano a fuggire, per mancanza di stimoli e opportunità lavorative adeguate ai loro progetti e ai loro titoli di studio. Lo smart working potrebbe rappresentare un incentivo per impedire la perdita di queste importanti risorse?
“Di smart working si è parlato tanto da quando la pandemia da Covid ha fatto irruzione nelle nostre vite. Nel bene e nel male abbiamo conosciuto meglio e sperimentato questa modalità di lavoro già presente in altri contesti. A onor del vero, all’interno di questo grande contenitore che chiamiamo ‘smart working’ o telelavoro, come suggerisce il presidente onorario dell’Accademia della Crusca Sabatini, abbiamo conosciuto tante applicazioni pratiche, e certo non sono mancati i furbetti per i quali l’esperienza è stata poco più che una vacanza. Le testimonianze che abbiamo raccolto come giovani di Confindustria in merito ai tanti lavoratori qualificati che operano per medie e grandi aziende con sede al di fuori della Sicilia ci sembrano promettenti. Un’indagine appena presentata dalla Luiss Business School fornisce tuttavia una lettura in chiaroscuro. Se una netta maggioranza di intervistati che hanno operato in smart working dice di essere riuscita a svolgere le regolari attività di lavoro, circa un terzo ha dichiarato di non essere riuscito a garantire la stessa produttività. Inoltre un 75% afferma di non essere sicuro che sarebbe una buona idea continuare anche in futuro a lavorare in smart working. Bisognerà dunque studiare meglio il fenomeno con altri riscontri statistici. Comunque è senza dubbio un’opportunità da approfondire per contrastare la ‘strage generazionale’ di cui tanto ci siamo occupati prima dell’era Covid”.
Da presidente regionale dei Giovani Imprenditori di Confindustria, cosa occorre per aiutare i nostri giovani a trovare un’occupazione nella loro terra d’origine?
“Innanzitutto una rivoluzione burocratica, perché non faremo un singolo passo in avanti se la pubblica amministrazione non inizia realmente a parlare la stessa lingua e a seguire i ritmi delle imprese. Digitalizzazione della pubblica amministrazione per consentire rapidità, trasparenza e qualità a servizio di cittadini e imprese. Formazione qualificata e riduzione del disallineamento tra domanda e offerta. Una politica concreta che esca dai libri delle favole sul fronte del divario nord-sud, con un piano shock sulle grandi infrastrutture e, per inciso, colgo l’occasione per ribadire che i giovani siciliani di Confindustria sono assolutamente a favore del Ponte sullo Stretto, perché dobbiamo poterci muovere decentemente dentro la regione, ma abbiamo diritto ad avere gli stessi livelli di mobilità assicurati da Napoli in su”.
Rendere questa regione attrattiva, in poche parole. E secondo lei lo smart working non potrebbe comunque essere un facilitatore?
“Il tema è che in Sicilia dobbiamo prima creare il lavoro e poi magari farlo anche diventare smart, almeno in certi settori. Sarebbe sicuramente una buona idea che il governo andasse incontro ai giovani che desiderano lavorare con questa impostazione, incentivando le aziende che offrono questa opportunità. Lo smart working è un concetto ampio che non deve essere visto banalmente come un lavoro da casa, ma riguarda un ripensamento in senso innovativo e intelligente del rapporto tra collaboratore e azienda. È evidente che noi giovani imprenditori siamo molto fiduciosi pur non perdendo di vista i lati positivi del lavoro in azienda, con tutti gli aspetti sociali e culturali che sono indubbiamente importanti per la persona”.