Cronaca

Strage via d’Amelio, le “matrici non mafiose”: Borsellino “tradito da membro delle istituzioni”

Nelle quasi 1500 pagine delle motivazioni relative alla sentenza del processo “Bo Mario + 2”, i giudici hanno offerto un affresco del contesto relativo alla strage di via d’Amelio che contiene, a pochi mesi dal 31° anniversario, significative novità.

Non una parola è scritta dai giudici relativamente al teorema – oggi possiamo chiamarlo così – della “trattativa Stato-mafia”, già smentito dalla sentenza di secondo grado del processo “Bagarella e altri”. E si è esclusa la responsabilità di Cosa nostra nella sottrazione dell’agenda rossa del dottor Paolo Borsellino: “a meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a un’attività materiale di Cosa nostra”, scrivono i giudici.

Strage di via d’Amelio, le novità sulla presunta “talpa” tra le istituzioni

L’istruttoria dibattimentale – si legge nelle motivazioni – ha consentito di rendere concreta “la tesi della partecipazione morale e materiale alla strage di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Borsellino”. Da quanto scritto dai giudici emerge chiaramente che Paolo Borsellino “si sentì tradito da un soggetto inserito in un contesto istituzionale”.

Individuato, inoltre, il ruolo che non solo gli imputati hanno avuto nel depistaggio, ma anche quello di Arnaldo La Barbera, che guidò il “gruppo d’indagine Falcone-Borsellino” della Polizia di Stato. Un dato emerge in maniera prepotente: se La Barbera non era, e non poteva esserlo, il dominus delle indagini non poteva certo essere il dominus del depistaggio segno che altri hanno deciso, formalizzato e addirittura sponsorizzato le propalazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna, che non solo indirizzarono le indagini ma condizionarono l’esito dei processi Borsellino 1 e bis.

Lo sguardo della Corte nel caso delle indagini sulla strage di via d’Amelio è puntato non solo sugli imputati ma anche sui testimoni sentiti nel corso degli anni che “consegnano un quadro per niente chiaro, fatto di insanabili contraddizioni tra le varie versioni, tra l’altro più volte rivedute e stravolte, che non permettono una lettura certa degli eventi aumentando la fallacia di qualsiasi conclusione”, scrivono i giudici evidenziando inoltre lo spropositato utilizzo della frase “non ricordo” da parte dei testimoni e le eccessive e divergenti “versioni dei fatti”.

Il ruolo dei “servizi” nelle indagini sulla strage

Il Tribunale di Caltanissetta mette nero su bianco che i servizi segreti non avrebbero potuto partecipare alle indagini sulla strage. Ma un’irrituale partecipazione del Sisde ci fu e non ne era al corrente solo il procuratore Tinebra che la sollecitò, ma anche il vertice dei servizi di sicurezza. Tant’è, si legge, che “è legittimo ritenere che il capo della Polizia di Stato e i vertici dei servizi segreti non potessero assumere un’iniziativa senza un minimo avallo istituzionale che non poteva che provenire dall’organo di vertice politico dell’epoca, cioè l’allora ministro dell’Interno Mancino”, spiegano i giudici, aggiungendo nuovi tasselli e novità sulle indagini relative alla strage di via d’Amelio.

Nessuno dei magistrati d’ufficio si oppose, probabilmente perché si trattava di un’iniziativa promossa dal capo d’ufficio.

Il ruolo di Bruno Contrada, “il diversivo giusto”

“Segnatamente ci si chiede – scrivono i Giudici – perché in un arco temporale prossimo alla strage ci sia dedicati a diffondere la notizia, poi rivelatasi falsa, della presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio poco dopo l’esplosione? A vantaggio di chi? Alla luce di tutte le circostanze di cui si è dato conto si ritiene che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage (che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) di via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza. Come ben evidenziato da talune parti civili Bruno Contrada era ‘il diversivo giusto’: un soggetto, nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al dottor Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l’organizzazione mafiosa, da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l’esplosione”.

“Inoltre – si legge nelle motivazioni della sentenza sulla strage di via d’Amelio -, il riferire circostanze così importanti a distanza di un notevole decorso di tempo (Maggi, nonostante fosse stato già sentito in altre occasioni, non ha mai rivelato tale circostanza prima del processo Borsellino quater) rende ancora più dubbia la credibilità di un dichiarante (Francesco Paolo Maggi, ndr) che è comunque stato destituito dalla Polizia di Stato nel 2001 a causa dell’abuso di sostanze stupefacenti e che sulla borsa del dottor Borsellino ha fornito una versione che contrasta con i dati oggettivi provenienti dai filmati”.

Non solo. I giudici evidenziano come Maggi, appartenente all’organo di polizia giudiziaria incaricato di svolgere le indagini, non abbia redatto alcuna relazione di servizio fino al 21 dicembre 1992 senza fornire, di fatto, alcuna spiegazione del ritardo di oltre cinque mesi nella redazione di tale atto. “Rimane il dubbio se si tratti di una ‘negligenza’ nella tecnica investigativa – l’ennesima accertata in questo processo – o se vi sia di più”, scrivono i giudici.

Strage di via d’Amelio e dossier mafia-appalti

Nell’ambito di questo filone d’indagini sulla strage di via d’Amelio, varie deposizioni dimostrano che Borsellino aveva mostrato particolare interesse – dopo la morte di Falcone – alle inchieste riguardanti il coinvolgimento di Cosa nostra nel settore degli appalti, e ciò non solo perché lo riteneva di fondamentale importanza per quella organizzazione ma anche perché convinto che lì potesse trovarsi una delle principali ragioni della strage di Capaci.

“Il senatore Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione. Ha altresì riferito il teste che, mentre a Milano e nella maggior parte del territorio nazionale si stava registrando in misura massiccia il fenomeno della collaborazione con la giustizia di molti degli imprenditori che erano rimasti coinvolti nel circuito tangentizio, ciò non si era verificato in Sicilia. E Borsellino spiegava tale diversità con la peculiarità del circuito siciliano, in cui l’accordo non si basava solo due poli, quello politico e quello imprenditoriale, ma era tripolare, in quanto Cosa nostra interveniva direttamente per gestire e assicurare il funzionamento del meccanismo e con la sua forza di intimidazione determinava così l’omertà di quegli stessi imprenditori che non avevano, invece, remore a denunciare l’esistenza di quel sistema in relazione agli appalti loro assegnati nel resto d’Italia”.

“Intenzione di Borsellino e Di Pietro – si legge ancora – era quella di sviluppare di comune intesa delle modalità investigative, fondate anche sulle conoscenze già acquisite, per ottenere anche in Sicilia i risultati conseguiti altrove”. E Borsellino stava già traducendo in atto questo progetto.

Il ruolo di Pietro Giammanco nella strage di via d’Amelio

“È però è innegabile che Pietro Giammanco (‘santo cristiano’ e ‘uomo di Lima’) è, come visto, il procuratore della Repubblica di Palermo che non avvertì Paolo Borsellino dell’arrivo dell’esplosivo, (…) che ne mortificò la storia professionale imbrigliandone le iniziative investigative (…) e che non gli conferì la delega a indagare su Palermo fino alla mattina del 19 Luglio 1992”.

Inoltre, la sua figura non può non legarsi all’inadeguata protezione di Paolo Borsellino, ancora una volta ben ricostruita dal Borsellino Quater anche sulla scorta del Borsellino ter, in cui si legge: “La già grave omissione di ogni comunicazione al dottor Borsellino delle informazioni relative all’attentato programmato contro di lui fu, poi, seguita da un comportamento ancora più grave, consistente nella sottovalutazione delle sue esigenze di sicurezza, con la mancata predisposizione di una ‘zona rimozione’ in via D’Amelio, nonostante tale esigenza fosse stata segnalata dal personale di tutela presentando una relazione a ciò diretta”, anche perché “le visite del dottor Borsellino alla propria madre avevano un carattere di abitualità nella giornata di domenica, quando ella risiedeva di solito dalla figlia Rita nella sua casa di via D’Amelio, e tale abitudine era sicuramente osservabile da parte del vicinato o da chi avesse studiato gli spostamenti del magistrato; tuttavia in tale luogo non era stata istituita una ‘zona rimozione’”.

Il ruolo di Arnaldo La Barbera, l’anello intermedio

“Gli elementi probatori partitamente analizzati finora non consentono di ritenere – al di là di ogni dubbio ragionevole – che Arnaldo La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa Cosa nostra o che l’abbia agevolata favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o di gruppi di potere cointeressati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta”.

Non vi è dubbio che La Barbera abbia agito “anche” per finalità di carriera e – dopo essere stato “posato” alla fine del 1992 in corrispondenza con l’arresto di Contrada – una volta “rientrato” nel circuito abbia fatto letteralmente “carte false” al fine di mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della Polizia di Stato e nell’establishment del tempo.

La posizione di Mario Bo’

“Deve – scrivono i giudici – ritenersi provato un sicuro protagonismo di Mario Bo’ non svalutabile a mera responsabilità di posizione, ma ancorato a specifiche condotte poste in essere dall’odierno imputato. La ritenuta inattendibilità di Scarantino nelle sue propalazioni etero accusatorie impedisce di trarre considerazioni a carico in ordine alla responsabilità di Mario Bo’ per l’attività (che svolse, ndr) effettuando colloqui investigativi prima che Scarantino iniziasse a collaborare falsamente con l’autorità giudiziaria nel corso dei quali gli rappresentava anche attraverso la sottoposizione di album fotografici le circostanze che avrebbe dovuto riferire agli inquirenti e successivamente fornendogli anche attraverso la visione di ulteriori riproduzioni fotografiche le indicazioni necessarie al riconoscimento delle fattezze fisiche di Scotto Gaetano e delle caratteristiche dei luoghi ove era ubicata la carrozzeria di Orofino Giuseppe in esito a un sopralluogo compiuto con esito negativo e interloquendo con lo stesso Scarantino negli intervalli tra un atto istruttorio e l’altro e anche nelle pause degli interrogatori sostenuti con l’autorità giudiziaria al fine di consentirgli di superare le contraddizioni in cui incorreva nelle dichiarazioni rese anche rispetto alle circostanze riferite da altri soggetti, in specie Candura Salvatore e Andriotta Francesco”.

Strage di via d’Amelio, le novità e le posizioni di Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo

A proposito, invece, delle responsabilità dell’imputato Fabrizio Mattei nell’ambito della strage di via d’Amelio, i giudici ritengono che “sotto il profilo materiale la condotta posta in essere dall’ex appartenente alla Polizia di Stato deve ritenersi non solo pienamente provata, ma quasi fatto notorio. È bene precisare che tra la tesi di chi ritenne allora che l’attività di Mattei fosse ‘quasi imposta’ dalla necessità di far sentire al collaboratore la vicinanza dello Stato (…) nel momento in cui questi doveva prepararsi all’esame dibattimentale”.

La Corte “ritiene preferibile l’opzione intermedia in base alla quale la significanza materiale dell’attività di studio svolta da Mattei è certamente un indice a carico – dotato di ancora maggior pregnanza dove si dia credito alla stessa versione originariamente resa dall’imputato in ordine all’effettuazione dell’attività di ausilio allo studio di Scarantino in più turni – ma non può da solo essere ritenuto sufficiente dovendo necessariamente essere adeguatamente ‘pesato’ assieme a tutti gli altri”. E ritiene anche che “l’attività di Mattei è totalmente ‘cieca’ rispetto alle false collaborazioni di Candura e Andriotta. In relazione a esse, Mattei non ha svolto nessun tipo di attività trovandosi nelle condizioni di chi dovesse considerare tali attività un presupposto da considerare assodato nella propria valutazione”.

“Deve poi evidenziarsi che Ribaudo – a differenza di Mattei – non solo non ha svolto gli interrogatori riepilogativi della collaborazione di Scarantino ma non ha partecipato a nessuno degli interrogatori che riguardavano l’ex falso collaboratore della Guadagna”, scrivono i giudici.

“Ne discende conclusivamente, che l’assenza di elementi a carico che possano anche solo colorare un principio di prova in ordine alla consapevolezza di Michele Ribaudo in ordine alla falsità della collaborazione di Vincenzo Scarantino, e la compresenza dei diversi elementi a discarico sopra evidenziati, non possono che indurre a ritenere l’assenza dell’elemento soggettivo del reato, con conseguente proscioglimento nel merito dell’imputato”.