ROMA – Ridurre i tempi delle liste d’attesa delle prestazioni sanitarie. Questo l’obiettivo della nuova legge approvata dalla Camera, che ha convertito il decreto n.73 del 7 giugno scorso. Un provvedimento criticato in certe parti anche da esponenti della maggioranza di Governo e osteggiato da opposizione e sindacati di categoria, tanto che il segretario nazionale del Nursind, Andrea Bottega, ha annunciato lo stato di agitazione di tutto il personale e uno sciopero in autunno.
Tutte le diverse posizioni, tuttavia, riconoscono la necessità di assicurare ai cittadini tempi congrui per ricevere le prestazioni ambulatoriali di cui necessitano e che, secondo quanto definito dal Piano nazionale di governo delle liste d’attesa per il triennio 2019-2021 (Pngla), devono consistere in un intervallo massimo di: 72 ore per i casi urgenti (U), 10 giorni per il codice “breve”(B), 30 giorni per le visite e 60 giorni per gli esami differibili (D), 120 giorni per quelli programmati (P).
Una recente indagine di Cittadinanzattiva, di cui abbiamo parlato anche nei giorni scorsi, condotta a giugno su sei prestazioni, dimostra come le tempistiche non vengano rispettate né al Nord, né al Sud, a eccezione di eccellenze come il Veneto. A essere stati oggetto d’esame la prima visita cardiologica, la prima visita pneumologia, la prima visita ginecologica, la prima visita oncologica, l’ecografia addome completo e la mammografia. In fondo alla classifica l’Azienda Universitaria Friuli Centrale, dove si aspetta in media 498 giorni per un’ecografia all’addome e 394 giorni per una visita ginecologica programmabili. Nell’Azienda Sanitaria 3 Liguria, invece, il tempo medio d’attesa per una visita cardiologica programmabile è di 427 giorni.
Il rispetto delle tempistiche previste dai codici B, D e P risultano al di sotto dello standard del 90% stabilito dal Pngla: all’Asl Rm4, si rispettano i dieci giorni massimi di attesa soltanto per il 17,8% delle ecografie all’addome completo in classe B; nelle Marche (dati aggregati, non per Asl) solo il 41% delle mammografie programmabili è garantito nei 120 giorni previsti; in Molise, si garantisce nei canonici 60 giorni della classe D solo il 34% delle ecografie addome completo; all’Asl Napoli 1 Centro appena il 14% delle visite oncologiche in codice B è erogato entro 10 giorni; la Asl di Bari riesce a erogare entro i 10 giorni solo il 9% delle visite pneumologiche con codice B.
La situazione reale potrebbe essere di gran lunga peggiore di quella, già preoccupante, emersa dal report. Nonostante la legge obblighi le Regioni alla pubblicazione dei dati inerenti i tempi d’attesa sui siti dedicati, almeno per le prime visite specialistiche di 13 prestazioni e per 65 esami diagnostici, soltanto 9 regioni su 20 rispettano l’indicazione e la Sicilia non è tra queste.
Come già segnalato dal Corriere della Sera, la rendicontazione susciterebbe dei dubbi persino nei pochi casi in cui viene fornita, a macchia di leopardo nel Belpaese, per la presenza di uno o più elementi che non consentirebbero un calcolo dei reali tempi d’attesa: non è segnato il grado di priorità della prestazione; non sono inseriti i dati di tutti i mesi dell’anno; non sono pubblicate le performance di tutte le strutture sanitarie; il monitoraggio non è eseguito su tutte le prestazioni sanitarie previste dalla legge; non è specificato se si tratti dei tempi previsti o dei tempi effettivamente attesi dai pazienti che hanno già ricevuto la prestazione.
Inoltre, anziani e cittadini più giovani avrebbero difficoltà nell’accesso al sistema di prenotazione. Tutte le Regioni sono provviste di Cup (Centro unico prenotazioni), ma solo in 13 essi sono centralizzati. In Calabria, Sicilia, Puglia, Campania, Veneto, Sardegna e Toscana, invece, sono divisi per zone e per Asl, con numeri telefonici diversi.
Secondo Cittadinanzattiva si attende pure per parlare al telefono con un operatore: il tempo più breve è del Cup del Lazio, con 2 minuti e 15 secondi di attesa; a seguire i Cup di Lombardia, Puglia, Sardegna, Campania e Basilicata, con un’attesa massima sempre inferiore ai 3 minuti. Nelle altre regioni, invece, il tempo di attesa è variato dai 3 minuti e 20 secondi dell’Ussl 4 del Veneto, fino ad arrivare agli oltre 18 minuti registrati per l’Asl di Genova.
Quanto si attende in Sicilia per una visita medica? Il sito del monitoraggio regionale non è aggiornato. Dal report di Cittadinanzattiva sappiamo però, per esempio, che nel mese di aprile a Caltanissetta i cittadini abbiano aspettato in media 155 giorni per una visita cardiologica, 103 giorni per una visita pneumologica, 14 giorni per una visita oncologica, 42 giorni per un’ecografia all’addome completo e 47 giorni per una mammografia. Non sono disponibili invece i dati delle visite ginecologiche.
“Dare una nuova stabilità alla sanità pubblica regionale e abbattere le liste di attesa – ha detto il presidente della Regione Siciliana Renato Schifani in occasione del conferimento degli incarichi di direttore generale delle aziende e degli enti del servizio sanitario regionale – sono due dei principali impegni assunti dal mio Governo sin dal suo insediamento e stiamo lavorando concretamente in questa direzione. Introdurre, tra gli obiettivi dei nuovi manager, il pieno rispetto del Piano regionale approvato dalla Giunta nel luglio dell’anno scorso, pena la revoca dell’incarico, servirà a garantire ai pazienti tempestività di accesso alle cure. Trovo sacrosanto che i dirigenti che hanno responsabilità vengano sottoposti alle necessarie verifiche dei loro obiettivi. È nostra intenzione dare ai cittadini risposte qualificate e rapide ai loro bisogni di salute”.
Ai direttori delle Asp provinciali sono stati assegnati obiettivi specifici da raggiungere, pena la decadenza automatica dalla loro funzione anche dopo il primo anno di attività. A loro il compito di redigere un apposito piano operativo di governo e di recupero delle liste d’attesa, che dovrà essere poi approvato dall’assessorato della Salute. Tra le novità, anche il necessario conseguimento del cento per cento delle azioni previste dal cronoprogramma del Piano operativo regionale (Por) della Missione 6 – Salute del Pnrr.
Decisioni importanti sono arrivate, proprio in questi giorni, anche sul fronte nazionale. È stato infatti approvato alla Camera, con 171 voti a favore e 122 contrari, il via libera al decreto liste d’attesa. Rispetto alla prima versione del testo – proposto in coincidenza con le elezioni europee e bocciato dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome – è saltato l’intervento diretto del ministero della Salute per le strutture che non dovessero rispettare i tempi, per cui persino il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca, di Fratelli d’Italia, aveva sollevato dubbi di costituzionalità. Al suo posto ci saranno i Ruas, responsabili regionali del monitoraggio.
Si aggiunge invece l’interlocuzione con le Regioni, attraverso la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome ai fini dell’emanazione del decreto interministeriale di adozione del piano d’azione finalizzato al rafforzamento della capacità di erogazione dei servizi sanitari e all’incremento dell’utilizzo dei servizi sanitari e sociosanitari sul territorio.
Tra le principali novità, una piattaforma nazionale delle liste d’attesa gestita dall’Agenas che renderà interoperabili le piattaforme regionali e provinciali con il livello centrale e svilupperà una piattaforma nazionale per la gestione delle liste, per consentire visibilità dell’offerta per il pubblico e il privato accreditato e per monitorare i dati delle regionali. Ma questa non è una novità, visto che tale obbligo esiste dal 2019, pur non essendo stato mai rispettato.
Un organismo di controllo all’interno del ministero della Salute, eventualmente avvalendosi anche del supporto del Comando dei Carabinieri, potrà sì accedere alle aziende sanitarie pubbliche o accreditate, ma non sanzionarle: dovrà comunicare le risultanze delle verifiche al Responsabile unico regionale dell’assistenza sanitaria (Ruas) che valuterà gli interventi da adottare e, a sua volta, inviare un report trimestrale e un report annuale all’organismo di controllo.
Il Cup varrà anche per la presa in carico di coloro che sono affetti da malattie croniche, degenerative e rare, per la prenotazione degli interventi di coloro che presentassero sintomi acuti da approfondire, per l’accesso diretto per la malattia mentale e da dipendenze patologiche e per le prestazioni di assistenza consultoriale, per l’accesso ai progetti di screening.
Continuerà a essere illecita la chiusura o la sospensione delle liste da parte delle Aziende sanitarie. Coloro che, dopo la prenotazione, non si presenteranno all’appuntamento senza giustificata disdetta, salvi i casi di forza maggiore e impossibilità sopravvenuta, saranno comunque tenuti a al pagamento della prestazione con quota ordinaria, anche se esenti. Agende dedicate saranno riservate per gli affetti da patologie cronico-degenerative e oncologiche.
Per ridurre le liste d’attesa non si recluteranno né medici, né infermieri. Nel caso in cui le strutture non riuscissero a rispettare le tempistiche previste per le prestazioni, i direttori generali potranno garantirne l’erogazione – nei limiti delle risorse disponibili – attraverso i liberi professionisti e il sistema privato accreditato. Le aziende potranno impiegare allo scopo pure i propri dirigenti, incrementare le ore agli specialisti ambulatoriali interni e/o allungare gli orari e i giorni di ricevimento, contemplando anche il weekend.
Ai professionisti intervenuti nella riduzione delle liste d’attesa sarà applicata una flat tax al 15%. Per ciò che concerne il tetto di spesa, a partire dal 2025 i valori saranno incrementati a livello regionale del 10% ogni anno, a cui potrà essere addizionato un ulteriore 5% su richiesta della Regione.
Soddisfazione per il via libera alla nuova legge è stata espressa dal ministro dalla Salute, Orazio Schillaci, secondo il quale “finalmente c’è un provvedimento che in maniera chiara razionalizza i meccanismi per ridurre le liste di attesa. In Italia non c’è mai stata una piattaforma nazionale, non si sono mai avuti tempi certi per eseguire una visita o un esame. Non c’è mai stata finora una così capillare determinazione e regolamentazione di tutto quello che si può fare per abbattere le liste di attesa”.
Alla piattaforma, punto forte del decreto liste d’attesa, “l’Agenas sta lavorando, a breve sarà attiva. L’incertezza finirà sicuramente perché con la piattaforma nazionale sapremo luogo per luogo, zona per zona, prestazione per prestazione, qual è la situazione. E quindi potremo intervenire. Fino adesso quando si dice ‘ci vogliono due anni per una mammografia’, cosa che ovviamente è molto grave, ci si basa però solamente su rilevazioni aneddotiche”.
Per quanto riguarda invece l’apertura prolungata degli studi medici e dei laboratori, anche nelle ore serali e nei fine settimane, Schillaci ha auspicato che “avendo aumentato i compensi per tutte le ore di straordinario degli operatori sanitari che accetteranno di lavorare di più, l’adesione sia massiccia in modo, appunto, da potere incrementare le prestazioni e abbattere le liste di attesa”.
“Il decreto – ha aggiunto in una nota è la deputata Imma Vietri, capogruppo di Fratelli d’Italia in Commissione Affari sociali alla Camera – tra le varie misure introduce la Piattaforma nazionale delle liste di attesa, che assicurerà l’interoperabilità con le piattaforme regionali, migliorando la trasparenza e l’efficienza. Inoltre, prevede che anche le strutture private accreditate entrino a far parte del Cup (Centro unico di prenotazione) regionale ed estende la possibilità di visita anche alle giornate di sabato e domenica. Altra norma fondamentale, e attesa da anni, è il superamento del tetto di spesa per l’assunzione di personale sanitario e sempre per il personale sanitario è prevista una flat tax al 15% sugli straordinari. Ancora una volta sono state smentite le fake news diffuse anche in questi giorni dalle opposizioni. Grazie al governo Meloni, la sanità è tornata ad essere al centro dell’agenda politica nazionale”.
Per il senatore M5s Orfeo Mazzalla, il testo convertito in legge avrebbe omesso tutte le iniziative utili al superamento del problema, senza aggiungere nulla allo stato attuale. “L’obiettivo – ha spiegato il componente della decima Commissione permanente di Palazzo Madama (Affari sociali, Sanità, Lavoro pubblico e privato, Previdenza sociale) – era quello di avere un cruscotto di dati e al tempo stesso di irrogare eventuali sanzioni o attività di tipo premiale ai dirigenti. Una volta arrivato in Commissione il decreto è stato fortemente contrastato anche dalla stessa maggioranza. In verità una vera consultazione con le Regioni, prima della sua realizzazione, non c’è stata. Era dunque un atto di imperio di un ministro, poi fallito sotto ogni aspetto, visto che il decreto è arrivato in Gazzetta completamente modificato. Si creerà una nuova figura, il Ruas, una sorta di assessore del presidente della Regione che monitorerà non solo le liste d’attesa ma, in generale, l’assistenza sanitaria”.
“All’articolo 2 – ha aggiunto – si sostiene che si potrà adire a poteri sostitutivi soltanto ‘in caso di ripetute inadempienze’, ma quante siano non lo sappiamo. Il documento è perciò scritto per rimanere nella discrezionalità tipica del burocrate regionale. Non solo: inizialmente c’era la possibilità per i cittadini e per gli organismi di categoria di fare segnalazioni che arrivassero al ministero per essere verificate, ma adesso è scomparsa anche questa raccolta, tra l’altro istituita in precedenza dal ministro Grillo con un numero verde dedicato”.
“Dal punto di vista tecnico, prima ancora che politico – ha affermato ancora Mazzella – l’atto rimette tutto alle Regioni e quindi non cambierà nulla. Sotto l’aspetto politico, di fatto, non fa nessun piano di assunzioni. Rimanda al 2025 la ‘realizzazione di una metodologia’, ancora perciò da realizzare, per la ‘definizione del fabbisogno di personale degli Enti’, su cui probabilmente si faranno dei decreti attuativi. Avevo almeno proposto di inserire un limite massimo entro cui provvedere e di stabilire un cronoprogramma, ma nemmeno questo è stato fatto. Tra l’altro si tratta di dati facilmente reperibili, perché le Regioni attraverso i loro atti e le loro programmazioni con le piante organiche ce l’hanno già. L’Asl di Napoli, per esempio, ha un piano di fabbisogno del personale triennale ma non riesce a soddisfarlo perché ci sono i tetti di spesa da rispettare. La presidente Meloni aveva promesso di eliminarli, ma non ha eliminato proprio niente e utilizza quanto già definito dal decreto Calabria durante il governo Conte. Il magro capitolo di spesa previsto, poi, non rappresenta una risorsa aggiuntiva ma proviene comunque dal bilancio del servizio sanitario nazionale”.
Servirebbe, secondo Mazzella, ben altro per risolvere il problema. “Tutte le associazioni di categoria – ha concluso – hanno individuato nella mancanza di personale il vero problema Sono rimasto colpito dai numeri: mancherebbero 70 mila infermieri e 40 mila medici specialisti. Andare a inserire altro lavoro straordinario e turni nel weekend al personale già stremato, senza fare una sola assunzione, non credo sia una strada percorribile. E questo governo ha detto sin da subito detto che avrebbe favorito il privato, che riceve fondi pubblici per sostituirsi al sistema sanitario pubblico. Andiamo in direzione della mercificazione della sanità, il passo successivo sarà quello di trasformare la sanità pubblica in privata. Si perdono progressivamente le caratteristiche all’accesso equo e universale, con il rischio già sottolineato dall’Agenas che le fasce più deboli restino fuori dalla sanità integrativa e dalle cure, perché non ci sarà la sanità pubblica da scegliere e, allo stesso tempo, non si potrà certo comprimere il fabbisogno. Anzi, con l’aumento delle diagnosi e della tecnologia, con l’invecchiamento della popolazione, con l’incremento dell’antibiotico-resistenza e delle malattie croniche, questo dato è destinato a crescere”.