Istruzione

Università di Catania, la nuova offerta formativa in Giurisprudenza

Tra i percorsi universitari e professionali più ostici c’è, senza dubbio, quello di Giurisprudenza. Sono, infatti, molte le difficoltà che sorgono a partire dai primi esami fino all’abilitazione professionale. Numerose anche le critiche mosse all’intero sistema e le richieste di riforma e modernizzazione. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Speciale, professore di Storia del Diritto Medievale e Moderno e Presidente del Corso di Laurea di Giurisprudenza dell’Università di Catania.

Secondo le più recenti statistiche gli  studenti di Giurisprudenza dell’Università di Catania impiegano, in media, nove anni per laurearsi. Quali sono, a suo avviso, le ragioni di tempistiche tanto lunghe?

“È giusto distinguere due responsabilità per questo ritardo, che può essere imputato tanto agli studenti quanto all’istituzione universitaria. La scelta degli studenti, talvolta, non è meditata e consapevole. Giurisprudenza, in alcuni casi, è una scelta di ripiego, perché si continua a pensare – ed in parte è vero – che questo percorso apra molte strade. Poi, però, si impatta con una realtà alla quale non si è pronti e sorgono difficoltà che spesso si rivelano insormontabili.

Un’altra causa può essere data dal fatto che gli studenti talvolta immaginano che questo sia uno studio mnemonico, mentre lo studio del diritto è fondato sulla logica, sulla capacità dialettica e sull’affinamento delle armi del ragionamento. La responsabilità di questo ritardo da parte nostra? Aver perseverato in un’offerta formativa rimasta ancorata ad una visione tradizionale, secondo la quale lo studente doveva appartenere ad una élite intellettuale, fondamentalmente proveniente dal liceo classico o scientifico, ed essere fortemente interessato ad un percorso di tipo tradizionale.

Da quest’anno, dopo una attenta analisi, abbiamo deciso di cambiare radicalmente l’offerta formativa. Abbiamo, innanzitutto, semestralizzato tutti gli insegnamenti, eccezion fatta per Procedura Civile (prevista al terzo anno) e Procedura Penale (prevista al quinto). Inoltre gli insegnamenti che comportavano più difficoltà per gli studenti sono stati segmentati in due anni diversi, in modo da dare loro il tempo di assimilare il contenuto e di abituarsi alla nuova impostazione metodologica richiesta dalla materia. Abbiamo, inoltre, raddoppiato le materie complementari a disposizione della scelta degli studenti, inserendo tutta una serie di discipline rispondenti a curiosità e interessi specifici.

Accanto alle materie a scelta, poi, abbiamo previsto le cosiddette  ‘ulteriori attività formative’, privilegiando discipline che, con una sperimentazione sul campo, avvicinano lo studente a momenti dell’esperienza professionale. Senza dimenticare i dieci insegnamenti impartiti in inglese, a favore sia degli studenti siciliani che di quelli stranieri partecipanti al progetto Erasmus.

Abbiamo, inoltre, previsto un corso iniziale per gli studenti di I anno (Laboratorio giuridico), in cui spiegheremo loro come studiare con profitto il diritto e abbiamo anche intensificato le iniziative per accogliere e accompagnare gli studenti con tutor didattici e tutor disciplinari.  Così anche il nostro dipartimento, che è uno dei dipartimenti di eccellenza italiani (secondo il giudizio di una commissione ministeriale), si è allineato all’offerta formativa degli altri dipartimenti d’eccellenza. Con l’offerta formativa valida a partire dal prossimo anno accademico, cercheremo di ottenere risultati di eccellenza anche sul piano della didattica”.

Quest’anno, dopo il rinvio per le restrizioni anti – contagio, sono state introdotte significative modifiche nelle linee guida dell’esame per l’abilitazione professionale, che hanno suscitato critiche e perplessità. Ritiene che fosse questa l’unica strada percorribile?

“Ogni volta che ci sono situazioni emergenziali, come quella in cui ci troviamo, le scelte fatte dalle autorità sono sempre opinabili. Non è una risposta pilatesca, ma non mi sento di dare un giudizio su queste soluzioni, anche perché la mia è un’esperienza professionale di docente di una materia storico-giuridica e non esercito la professione”.

Tra le critiche mosse all’impianto stesso dell’esame ci sono quelle relative alle materie oggetto delle due prove. In molti evidenziano la loro scarsa attinenza con la professione, sottolineando allo stesso tempo l’assenza di  approfondimento su tematiche ed argomenti di primaria importanza, come ad esempio il GDPR. Qual è la sua posizione in merito? Crede che sarebbe necessaria una corposa riforma?

“Il sistema di abilitazione alla professione forense presenta indubbie criticità in periodi normali. La selezione, dopo circa due anni dalla laurea, avviene con un sistema ormai superato, che non riflette più la realtà dei nostri giorni. Un sistema che, allo stesso tempo, determina un aumento indiscriminato dei ruoli degli avvocati, con un conseguente abbassamento del livello della professione, riflesso di una concorrenza spietata.

Questo comporta il fatto che ci siano professionisti sottopagati e che i giovani avvocati vengano sfruttati negli studi legali. Il sistema va rivisto e rivalutato, però bisogna anche considerare che una parte degli abilitati utilizza il titolo per svolgere altre mansioni. Ho fatto parte, per due volte, della commissione giudicatrice ed ho visto il livello non entusiasmante della preparazione degli esaminandi. Ci sono, sicuramente, ragazzi brillanti che scelgono convintamente di esercitare la professione e fanno, quindi, esami brillanti. La stragrande maggioranza ha un rendimento condizionato dal fatto che, nel frattempo, si sta occupando di altro. Nella valutazione dell’esame si dovrebbe considerare anche questo”.

“Il problema dell’attinenza tra gli studi e la professione, negli Stati Uniti, se lo sono posti circa venti anni fa. La domanda da porsi è questa: gli studi universitari e quelli che precedono l’abilitazione, devono avere un’impostazione professionalizzante oppure metodologica? La mia risposta è che devono avere un’impostazione metodologica. A questa conclusione sono arrivati anche negli Stati Uniti, dopo una fase in cui – su indicazione dei grandi studi legali – alcune università  formavano gli studenti con una impostazione professionalizzante. L’obiettivo era quello di avere laureati pronti ad affrontare tematiche e materie più urgenti nella prassi.

Il risultato è stato un disastro, perché professionalizzare uno studente quando questi non ha ancora una preparazione di base, significa insegnargli a fare un qualcosa di assai limitato senza spiegargli il contesto in cui si inserisce. Si crea quindi un tecnico, non un sapiente. La professione del giurista, invece, non è tecnica ma sapienziale.  Acquisendo il sapere giuridico si acquisisce una preparazione duttile e con orizzonti ampi, che permette di abbracciare tutte le novità e tutti i casi.

Noi, purtroppo, ci stiamo avviando verso la strada sbagliata. Cercheremo di formare lo studente dal punto di vista tecnico, creando un operaio del diritto – utilizzabile solo per determinati segmenti della ‘catena di montaggio’ – che non saprà mai progettare o costruire alcunché. Poi anche noi torneremo all’idea del giurista come cultore del sapere giuridico. Certo, è chiaro che non possiamo ignorare aspetti come quello della protezione dei dati, elemento fondamentale oggi e in futuro visto il continuo progresso informatico. Il nostro compito, da questo punto di vista, è quello di dare tutte le coordinate riguardanti i macro – concetti di sistema e agganciarvi, successivamente, nozioni e soluzioni tecniche. Dobbiamo cambiare il modo di ‘fare metodo’, non il metodo in sé”.

Vittorio Sangiorgi