Inchiesta

Vecchia e insostenibile, l’emergenza è in casa

Il tragico crollo di un ballatoio a Scampia, a causa del quale tre persone hanno perso la vita, ha fatto tornare prepotentemente di attualità il tema dell’emergenza casa. D’altronde, la storia di un paese si legge sulle sue case e quelle italiane raccontano tutta l’antichità della nostra penisola. Le abitazioni vecchie sono tante: il 56,3% è stato costruito nella seconda metà del secolo scorso, mentre il 9,5% ha più di cento anni. A scattare la fotografia è il rapporto “Today Abitazioni” redatto da Istat, che elabora dati basati sul censimento del 2021. Sempre nel rapporto si evidenzia che una casa su tre non ha un residente.

9.581.772 edifici abitabili senza un occupante fisso

Il rapporto indica 9.581.772 edifici abitabili senza un occupante fisso su un totale di 35.271.829. Va precisato che per “non occupata” si intende sia un’abitazione vuota che occupata da una persona non residente che potrebbe, quindi, essere in affitto. Guardando alla ripartizione geografica, il 27,5% delle abitazioni in Italia si trova nelle regioni del Nord-Ovest. Poi segue il Sud, con il 22,8%. Al Centro resta il 18,9%, al Nord-est il 18,8%, alle Isole il 12%. La graduatoria è la stessa che si riscontra anche osservando i dati delle abitazioni occupate: il 28,0% si concentra nel Nord-ovest, il 21,3% al Sud, il 20,2% al Centro, il 19,8% nel Nord-ovest e il restante 10,7% nelle Isole.

Il quadro cambia se si considera invece la distribuzione sul territorio delle abitazioni non occupate. Le percentuali più elevate si concentrano infatti al Sud Italia: 26,8%. A poca distanza c’è il Nord-ovest (26,3%), mentre sono più distanti il Nord-est (16,0%), il Centro (15,5%) e le Isole (15,3%). In tutto, fino a tre anni fa, le abitazioni non occupate erano 9.581.772. Quelle occupate da almeno una persona residente erano invece 25.690.057. Le percentuali più elevate di case non occupate si concentrano al Sud Italia: 26,8%.

Ad avere gli edifici più longevi è la Liguria, dove circa la metà delle abitazioni occupate è stata costruita prima degli anni ‘60 del secolo scorso. A ruota seguono Toscana e Piemonte. Le case ultracentenarie, invece, si trovano soprattutto nelle grandi città italiane ossia Torino, Roma, Milano e Napoli. Il dato che emerge diventa allarmante se letto in relazione al problema dell’efficientamento energetico delle abitazioni. Il report “La consistenza del parco immobiliare nazionale”, dell’agenzia per l’energia Enea, ha sottolineato che il 60% delle case italiane è stato realizzato prima del 1976, quando entrò in vigore la prima legge sul risparmio energetico. Lo stesso vale per il 12% degli edifici non residenziali.

Si tratta di un’ampia quantità di immobili obsoleti dal punto di vista energetico, che richiederanno un grande sforzo per raggiungere gli standard di prestazioni richiesti dagli accordi europei che con una prima tappa nel 2030 punta alla neutralità climatica degli edifici nel 2050.

La maggior parte delle persone risiede in abitazioni costruite tra gli anni Sessanta e Ottanta

Ma un altro dato preoccupante emerge dal censimento. In Italia le case nuove, costruite a partire dal 2006, sono poche e scarsamente abitate e che la maggior parte delle persone risiede in abitazioni costruite tra gli anni Sessanta e Ottanta. Il report di Istat evidenzia poi altri primati: Roma è la città con più case in tutta Italia. Solo l’area metropolitana della capitale contiene il 6,4% delle abitazioni censite a livello nazionale, seguita da Milano e Napoli. Prato, invece, è la città con la percentuale più alta di case abitate da almeno un residente: il 92,2%, contro una media nazionale del 72,8%.

Ciò significa che in Italia quasi una casa su tre (il 27,2%) non è occupata o comunque non viene usata da persone residenti. Il fenomeno si acutizza in alcune regioni come la Valle d’Aosta, in testa alla classifica, seguita dalle isole e dal sud. I dati indicano però un leggero passo avanti rispetto a dieci anni fa perché le abitazioni popolate sono aumentate del 6,4% nel periodo tra il 2011 e il 2021.

La superficie abitata pro capite

A cambiare nel corso del tempo è stata anche la superficie abitata pro capite. Nell’arco di un decennio gli italiani si sono allargati: nel 2011 ogni residente disponeva in media di 40,7 metri quadrati, che sono diventati 44,3 nel 2021. Il valore oscilla lungo la penisola: nel Nord-Est, dove le case sono anche più grandi, la superficie per ciascun abitante aumenta, mentre nel Sud scende sotto la media. Va tenuto presente che la maggior parte delle persone oggi vive in residenze abbastanza spaziose, tra gli 80 e i 100 metri quadrati, mentre quelle piccole sono molto meno occupate. La Lombardia, infine, è la regione con la più alta concentrazione di case con 234,7 per ogni chilometro quadrato, il doppio rispetto alla media nazionale di 116,8. Seguono la Sicilia (9% di abitazioni totali e circa l’8% di abitazioni occupate), il Lazio (9% di abitazioni totali e quasi il 10% di abitazioni occupate), la Campania (8,1% di abitazioni totali e 8,4% di abitazioni occupate), il Piemonte (quasi 8% di abitazioni totali e 7,6% di abitazioni occupate) e il Veneto (7,5% di abitazioni totali e 8,1% di abitazioni occupate).

Le quote più elevate di abitazioni occupate rispetto al totale regionale delle abitazioni si rilevano nel Lazio (80,5%), in Lombardia (78,8%), in Emilia-Romagna (78,2%) e in Veneto (78,0%). Così se al Sud si vive più stretti, al Nord si abita di certo più vicini.

Ma il vero dato che emerge dal report di Istat è che in Italia si è costruito tanto, che le abitazioni in gran parte sono vecchie e richiederebbero un vasto programma pubblico di recupero e che persistono comunque milioni di abitazioni vuote. Quello che non si comprende è, nonostante l’abbondanza di abitazioni rispetto ai residenti, se non per una volontà speculativa imperante, il perché valori degli affitti e osti delle case in compravendita risultano così alti.

Questo è reso ancora più evidente dal dato che indica come 20 milioni di abitazioni realizzate dal 1961 al 2000 non siano state in grado di rispondere compiutamente al fabbisogno reale, tant’è che ancora oggi sono allarmanti i dati relativi all’emergenza abitativa. Il dato poi delle abitazioni sfitte, anche se eventualmente depurato dalle abitazioni che non sono effettivamente sfitte ma utilizzate temporaneamente da studenti, lavoratori in mobilità o per affitti turistici, restano milioni. Questo significa che probabilmente si è preferito costruire più per rispondere ad appetiti speculativi, generando inoltre un consumo di suolo irresponsabile che è una delle cause dell’innalzamento delle temperature nelle nostre città.

E’ tempo che qualcosa cambi e che si comprenda che continuare ad essere accondiscendenti nei confronti della speculazione immobiliare si vive tutti più male, molti in una precarietà senza risposta abitativa stabile, e, dulcis in fundo, non respirando per l’eccessivo calore sprigionato dalla cementificazione selvaggia. E forse, a proposito di questo, la legge c.d. “Salva Casa” ha dimostrato tutti i suoi limiti.

Ma la soluzione non è consumare nuovo suolo: urge “rigenerare”

La trasformazione è in atto e la “rigenerazione urbana” ne è la protagonista. Tutti la chiedono, tutti la vogliono: amministratori, ingegneri, architetti, urbanisti, costruttori, Ance, e Confedilizia, i proprietari. L’attuale sistema di gestione del territorio è ancora immobilizzato su regole e metriche pensate per un modello espansivo, non più compatibile con il nuovo modello di sviluppo che guarda alla trasformazione e alla rigenerazione degli spazi urbani in una chiave di sostenibilità ambientale, sociale ed economica e di maggiore attenzione alle persone. Sia obiettivi internazionali, Agenda 2030 dell’Onu e in particolare l’obiettivo 11 “Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili”, ed europei, consumo del suolo netto entro 2050, decarbonizzazione entro 2030, nuova direttiva sulla prestazione energetica, stanno plasmando il nuovo modello di sviluppo urbano.

In una recente intervista al QdS Paolo La Greca, docente di Tecnica e pianificazione urbanistica dell’Università di Catania, vicesindaco e assessore all’Urbanistica e alla Mobilità del Comune di Catania, ha spiegato che “il Ddl approvato in Senato nell’aprile del 2021, prima del florilegio che ha fatto seguito in questa legislatura, propone una definizione della Rigenerazione elaborata ma convincente, ossia ‘un complesso sistematico di trasformazioni urbanistiche e edilizie in ambiti urbani su aree e complessi edilizi caratterizzati da degrado urbanistico, edilizio, ambientale o socio-economico, che non determinino consumo di suolo e secondo criteri che utilizzino metodologie e tecniche relative alla sostenibilità ambientale, anche mediante azioni di rinaturalizzazione dei suoli consumati in modo reversibile’. A mepiace evidenziare, che la rigenerazione è una strategia complessa a molti attori che opera su una molteplicità di valori, non solo economici. Attivare un processo di rigenerazione di una parte della città significa avviare uno sviluppo durevole che attivi forti collegamenti alle comunità. La sostenibilità ambientale, nella sua tripla accezione economica, ambientale e sociale, obbliga a riguardare la rigenerazione nella prospettiva di un’urbanistica attenta ai cittadini ai loro modi di vivere, di abitare, di consentire un’accessibilità equa per tutti” e che oggi “sviluppo non è più solo espansione edilizia. Le condizioni sono profondamente cambiate. Viviamo in un’era che il premio Nobel Paul Crutzen, già alcuni anni fa, ha definito ‘Antropocene’. L’uomo è il primo agente delle mutazioni della Terra più che gli stessi eventi naturali. Il Pianeta è segnato da una crisi ambientale senza precedenti per il superamento dei suoi limiti ecologici. In questo scenario, lo sviluppo è, in primo luogo, riciclo dei tessuti urbani in declino, senza consumo di suolo, valorizzazione delle risorse ambientali e paesaggistiche. Rigenerare vuol dire prendersi cura degli spazi aperti, del loro disegno, della qualità rigenerativa che assumono i parchi e le aree verdi quali fondamentali servizi ecosistemici. Si riafferma, in una rinnovata prospettiva semantica, il recupero della città storica e consolidata, nonché la creazione di un nuovo welfare materiale aperto e innovativo per una nuova qualità dell’abitare. Per superare quelle regole e quelle metriche pensate per un modello espansivo, cui lei fa riferimento, è fondamentale separare rigorosamente l’idea di sviluppo da quella di espansione”.

Nello scorso mese di luglio è stato pubblicato l’elenco dei progetti di micro riqualificazione auto rigenerazione urbana finanziati con il progetto “Facciamo Comunità” della Città metropolitana di Palermo. Sono 27 i comuni ammessi a finanziamento che hanno presentato progetti per il recupero e la riqualificazione di spazi pubblici urbani, con una particolare attenzione alle aree verdi, ai quali l’amministrazione metropolitana ha voluto attribuire una maggiore rilevanza in sede di valutazione. I prossimi passi saranno il recupero dei beni proposti e la presa in carico da parte del territorio del bene stesso attraverso il patto di collaborazione fra amministrazione e cittadini proponenti.

“Siamo molto soddisfatti della partecipazione a questo progetto, grazie al quale potremo contribuire a realizzare iniziative tese a favorire lo sviluppo della cittadinanza attiva. Questo significa innescare processi virtuosi di collaborazione per risolvere problemi comuni in modo innovativo. Ringrazio gli uffici per il grande lavoro svolto in questi mesi e mi auguro questo possa solo essere l’inizio di una nuova intesa tra cittadini e istituzioni nel territorio metropolitano”, ha dichiarato il sindaco metropolitano Roberto Lagalla.

“Abbiamo ricevuto progetti molto interessanti e nella valutazione abbiamo scelto di premiare quelli indirizzati al recupero di aree verdi cittadine e che, in linea con i principi del Pnrr, presentano una maggiore inclusività verso i giovani, i Neet, le persone fragili e le donne. L’obiettivo è quello di creare sinergie utili alla rigenerazione dei territori coinvolgendo soprattutto le categorie fragili e purtroppo spesso ai margini. La ritengo una iniziativa virtuosa che sono certo porterà a risultati tangibili nei comuni metropolitani”, ha aggiunto Nicola Vernuccio, direttore generale della Città metropolitana.