Epatite C: Sicilia tra le più colpite. Ogni anno 3 mila morti per cirrosi - QdS

Epatite C: Sicilia tra le più colpite. Ogni anno 3 mila morti per cirrosi

Angela Michela Rabiolo

Epatite C: Sicilia tra le più colpite. Ogni anno 3 mila morti per cirrosi

sabato 13 Ottobre 2012

Il 20% dei casi di Hcv evolve in tumore al fegato. Solo nel 1992 è stato introdotto il test. L’infezione può essere asintomatica: in Italia solo il 15% dei malati sa di esserlo

PALERMO – Dopo mangiato ci si sente molto stanchi e si avverte il bisogno di dormire ma il sonno non è ristoratore. Si avverte un senso di pesantezza e l’interno degli occhi appare più giallo. Alla palpazione, lo stomaco risulta teso e dolente dalla parte del fegato e si ha un prurito fastidioso e continuo, quasi pungente. Ma i sintomi vengono sottovalutati almeno finché una bella mattina si nota l’orrore negli sguardi di amici, conoscenti ed estranei e un senso di spossatezza quasi lancinante. Ci si guarda allo specchio e ci si vede gialli anzi, giallo ittero che di per sé è già una diagnosi perché indica che il fegato ha certamente qualcosa che non va.
Oppure non si sente assolutamente nulla, la malattia silente resta annidata tra le cellule e il senso di affaticamento viene scambiato per un semplice calo di energie magari dovuto allo stress. Così sono almeno un milione e mezzo gli italiani affetti da epatite C cronica, ma solo il 10-15% di loro lo sa: la maggior parte non ha sintomi e convive per decenni con l’infezione senza accorgersi di nulla. Il virus, però, anche se in modo silenzioso, può danneggiare il fegato gravemente. E può compromettere anche la salute e la vita di chi ci sta intorno perché l’epatite C è trasmissibile attraverso tutti i fluidi corporei ma ha una maggiore concentrazione nel sangue per cui un soggetto sano può entrare abbastanza facilmente in contatto con la malattia e infettarsi a sua volta.
“In Italia l’epatite C ha cominciato a diffondersi negli anni ‘50 e ciò spiega perché la maggior parte dei casi si registra negli ultracinquantenni — spiega Antonio Craxì, Ordinario di Gastroenterologia all’Università degli Studi di Palermo —. L’infezione con il virus Hcv (presente nel sangue e in minore misura negli altri fluidi corporei) si verifica in seguito al contatto con sangue infetto, meno spesso per via sessuale. I più importanti fattori di rischio sono una storia (anche remota) di tossicodipendenza, trasfusioni di sangue eseguite prima del 1992 (anno in cui è stato introdotto il test per l’Hcv), interventi chirurgici, convivenza con soggetti infetti, e alcune pratiche come piercing, tatuaggi e trattamenti estetici con strumenti non adeguatamente sterilizzati”.
In Sicilia, di cirrosi epatica muoiono ogni anno tra le 2.500 e le 3.000 persone, l’80% a causa dell’infezione da virus dell’epatite C. La popolazione dell’isola è, nel Paese, una delle più esposte al contagio del virus. Eppure, solo poco più della metà dei siciliani sa cos’è l’epatite C.
Non bisogna trascurare i risvolti sociali che gravitano attorno a questo virus e soprattutto lo stigma che ricade sui malati riconosciuti. L’epatite C infatti, al contrario della B e della A, è associata da molti a uno stile di vita al limite e dedito agli eccessi e non è da escludere che molti rifiutino di eseguire il test per non doversi riconoscere o farsi riconoscere come tossicodipendente o alcolista. La malattia è comunemente associata a queste categorie di persone e non si pensa invece che il virus può essere acquisito con rapporti sessuali non protetti o strumenti medici poco disinfettati. Anche andando dal dentista si potrebbe contrarre l’epatite.
Il prof. Craxì spiega: “Dopo l’infezione, il 20% circa dei malati guarisce; l’altro 80% evolve verso l’epatite cronica. Nel giro di 15-30 anni, circa il 20% dei pazienti con epatite cronica progredisce verso la cirrosi epatica e ogni anno il 4-6% dei cirrotici sviluppa un carcinoma epatico. L’infezione può non essere diagnosticata per molti anni vista l’assenza di sintomi. Nei pochi casi in cui l’infezione è sintomatica, si possono manifestare fatica, dolore muscolare e articolare, prurito, talvolta ittero”. Il virus può quindi rimanere silente e asintomatico, negativizzarsi e diminuire il suo potenziale dannoso permettendo una vita normale così come può invece evolvere in cirrosi. Fino a poco tempo fa, la cura prevista consisteva nella somministrazione di interferone. La cura però doveva essere attentamente vagliata in base al singolo caso poiché la medicina faceva venire la febbre, perdere i capelli, procurava nausea e molti altri disturbi che compromettevano ulteriormente la qualità di vita del paziente il quale magari conviveva meglio con il virus senza aver necessità di cure così pesanti e poteva negativizzare la fase acuta dell’infezione modificando la propria dieta e lo stile di vita.
 
Il prof. Craxì ribadisce infatti che: “la terapia di scelta si basa sull’associazione tra interferone peghilato e l’antivirale ribavirina. È efficace, ma non priva di effetti collaterali e va proposta ai pazienti che possono trarne davvero beneficio, cioè i soggetti in cui la fibrosi del fegato sta evolvendo verso la cirrosi, con schemi terapeutici personalizzati. Nei prossimi mesi l’armamentario terapeutico, in particolare per le forme causate dall’Hcv di genotipo 1 (circa il 60% del totale), si allargherà grazie a due nuovi farmaci (telaprevir e boceprevir) da utilizzare in triplice terapia insieme a interferone peghilato e ribavirina. Si è visto che la triplice terapia può dare benefici a circa l’80% dei pazienti, mentre nel restante 20% (spesso riconoscibili a priori valutando alcuni parametri specifici) può essere sufficiente la duplice terapia”.
Per fugare ogni dubbio basta un semplice esame del sangue. “Al momento non ci sono indicazioni per lo screening a tappeto di tutta la popolazione e così molti malati scoprono di esserlo in modo accidentale, per esempio facendo esami del sangue che evidenziano un rialzo degli enzimi epatici (Ast, Alt eccetera), cui si fa seguire il test dell’Hcv. In generale il test può comunque essere utile in tutti i soggetti tra i 25 e i 75 anni con fattori di rischio”- conclude Craxì.

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