L’esclusione delle Aziende sanitarie e ospedaliere delle Regioni con piano di rientro è incostituzionale. La sentenza n. 186/13 della Consulta ha aperto le porte ai creditori della Sanità
ROMA – È passata quasi in sordina la sentenza della Corte costituzionale che dichiara illegittimo il divieto di intraprendere azioni esecutive verso un’Azienda sanitaria locale o ospedaliera. Eppure il pronunciamento n. 186/2013 della Consulta potrebbe aprire una vera e propria breccia nel diritto amministrativo, a vantaggio dei cittadini che hanno contenziosi in atto con una Pubblica amministrazione.
Tutto ha preso origine da una serie di ordinanze del Tribunale amministrativo della Campania, il quale ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 51, della Legge di stabilità 2011 (la 220 del 2010) nella parte in cui prevede che nelle Regioni già commissariate in quanto sottoposte a piano di rientro dei disavanzi sanitari, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali o ospedaliere sino al 31 dicembre 2011 (termine poi slittato da due successive norme al 31 dicembre 2012 e 2013).
Tale divieto – secondo i giudici amministrativi campani – sarebbe in contrasto con l’art. 3 della Carta fondamentale (il principio di eguaglianza di fronte alla Legge), con l’art. 24 (in particolare il primo comma, “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”), con l’art. 41 (“L’iniziativa economica privata è libera” e infine con l’art. 111 (il secondo comma, che enuncia i principi del giusto processo).
E in effetti, nonostante numerosi casi di decreti ingiuntivi – emessi nei confronti di aziende sanitarie, ospedaliere e locali, aventi sede in Campania – divenuti esecutivi per mancata opposizione, il Tar campano rivela che è proprio la disposizione sottoposta al giudizio della Corte a impedire la procedibilità.
Il Tribunale, nel sollevare la questione, è particolarmente preciso in proposito della violazione dell’art. 111 Cost., in quanto l’art. 1 della legge 220/2010 “rompe” il principio di “parità delle armi”, che è resa palese dall’ingiustificato privilegio a favore dell’ente esecutato, e viola anche il principio di “ragionevole durata del processo”, posto che l’effetto della norma censurata è di differire la concreta realizzazione dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio.
La norma incriminata, in parole povere, avrebbe messo le aziende sanitarie in una posizione di vantaggio rispetto, per esempio, alle imprese creditrici e, tra l’altro, per un tempo tutt’altro che limitato, essendo stata prolungata per ben due volte l’impignorabilità dei beni.
Ed è proprio questo inspiegabile posizione di privilegio ad aver convinto i giudici della Consulta a ritenere fondate le questioni sollevate dal Tar. “Questa Corte ha più volte affermato – si legge nella sentenza – che un intervento legislativo, che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore, può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie qualora, per un verso, siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale (sentenze n. 155 del 2004 e n. 310 del 2003) e, per altro verso, le disposizioni di carattere processuale che incidono sui giudizi pendenti, determinandone l’estinzione, siano controbilanciate da disposizioni di carattere sostanziale che, a loro volta, garantiscano, anche per altra via che non sia quella della esecuzione giudiziale, la sostanziale realizzazione dei diritti oggetto delle procedure estinte”. Ma sia la necessità di una durata limitata e ragionevole che gli eventuali “checks and balances” all’interno del processo (prendendo a prestito un termine diffuso in politica) sono stati ignorati dal legislatore.
“Viceversa – conclude dunque la Corte – la disposizione ora censurata, la cui durata nel tempo, inizialmente prevista per un anno, già è stata, con due provvedimenti di proroga adottati dal legislatore, differita di ulteriori due anni sino al 31 dicembre 2013, (…) non prevede alcun meccanismo certo”. Al tempo stesso, per giustificare l’impignorabilità dei beni delle aziende ospedaliere “non può valere (…) il fatto che (…) possano essere” ritenute “strumentali ad assicurare la continuità della erogazione delle funzioni essenziali del servizio sanitario”: infatti, a presidio di tale essenziale esigenza è già in vigore la legge 67/1993, in base alla quale è assicurata “la impignorabilità dei fondi a destinazione vincolata essenziali ai fini della erogazione dei servizi sanitari”. Un precedente giurisprudenziale che adesso, anche in Sicilia, i creditori delle Asp, Ao e Aou potrebbe sfruttare.
Dal 2010 bloccati 2 miliardi di crediti a causa dell’impignorabilità
ROMA – La sentenza della Corte che elimina il divieto alla pignorabilità dei beni delle aziende sanitarie, nelle Regioni commissariate e sottoposte al piano di rientro, è stata accolta con favore dalle associazioni a tutela degli interessi delle imprese operanti nel settore sanitario. “La sentenza della Consulta che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’impignorabilità dei beni delle Aziende sanitarie – ha commentato il presidente di Assobiomedica, Stefano Raimondi – ripristina uno stato di diritto che era stato messo gravemente in discussione per anni”. “Ammontano a più di 2 miliardi di euro – ha dichiarato Rimondi – i crediti vantati dalle imprese associate ad Assobiomedica nelle regioni commissariate, che dal 2010 sono soggette a impignorabilità. Su 5 miliardi di crediti in sospeso, quasi la metà erano blindati dal blocco dei pignoramenti, garantendo alla pubblica amministrazione il privilegio di non pagare i propri debiti, causando così una gravissima crisi finanziaria per tutte le aziende del settore biomedicale”. “Ci auguriamo che anche questa sentenza contribuisca – ha concluso il presidente dell’associazione di Confindustria – a risolvere il problema dei ritardi nei pagamenti alle imprese, già in grave difficoltà a causa dei tagli lineari al settore e del credit crunch, che stanno inducendo molte aziende a forti ridimensionamenti, con inevitabili conseguenze per il diritto alla salute dei cittadini”.