In Italia vi è un’unica legge che regola il professionismo sportivo, è la legge n° 91 del 23 marzo del 1981. Sino ad oggi non ha subito alcuna modifica, nonostante sia stata analizzata e messa in discussione in più occasioni da parte dei competenti di sport e di diritto sportivo.
La ratio di questa non scelta è quella di non voler troppo allargare il bacino del professionismo, il più delle volte per motivazioni economiche (e sarebbe corretto), ma rimane ingiustificata l’assenza delle donne dal professionismo.
“In assenza di un contratto ed in presenza di questa condizione che spesso raggiunge la stregua di un lavoro in nero – ha detto Vitale – il 70% delle donne che vivono di sport non raggiungono l’indipendenza economica, altrettante sono costrette a chiedere a lungo un sostegno alla famiglia. Questo scenario deve essere letto considerando come precondizione un gap del 17% nello stipendio percepito da una donna ‘professionista’ rispetto ad un uomo che pratica sport agli stessi livelli”.
Passata alla Camera, la legge si è arenata al Senato, ma Manuela Di Centa, grazie al ruolo di membro della Commissione Coni istituita per monitorare la legge 81/91, è rimasta riferimento per la battaglia che continua a favore del raggiungimento delle pari opportunità delle donne nello sport. Queste le sue parole rilasciate in esclusiva al QdS: “Secondo la mia esperienza relativa alla legge 91 dell’81 – ha dichiarato la campionessa – ritengo ci sia un grande nodo da dover risolvere. Un nodo cruciale che coinvolge tantissime ragazze, donne, atlete che non hanno riconosciuta assistenza e tutela sociale. Durante gli anni trascorsi in Parlamento mi sono battuta per ottenere tutela a favore delle donne sotto il profilo della maternità. Non c’è legislazione, è lasciato tutto allo stato brado”.
“La condizione esistente – ha continuato la Di Centa – fotografa grandi campionesse che ricevono tutela perché appartenenti ad un corpo militare, quindi sono riconosciute come lavoratrici dello Stato, ma nessun riconoscimento è dato alle atlete che non hanno un posto da militare. Non si pone attenzione alla dimensione mamma-atleta, bisogna riconoscere la maternità e far sì che attraverso un processo di solidarietà tra lavoratori, si possa garantire questa tutela”.
“Recentemente – ha raccontato al QdS l’ex deputata – è stato molto positivo l’incontro tra il Coni e il presidente del Consiglio Enrico Letta, che ha visto così il Governo intervenire con il progetto ‘Destinazione Sport’. Tra le tante azioni è prevista quella di rivedere la legge 91. Una tavolo specifico esprime il desiderio di puntare alla crescita attraverso una rivalutazione della socialità e una riequilibratura degli aspetti economici legati allo sport. Questo intervento del Governo rappresenta per la prima volta un segnale non proveniente da un singolo onorevole che fa una fatica esagerata per battersi a favore di una legge, ma una mossa da chi è a capo delle istituzioni”.
Presidente Caramazza, in tema di pari opportunità si discute molto di “quote rosa”. Come si colloca la Sicilia?
“Siamo una regione che rimane indietro rispetto al resto d’Italia o comunque del Cio. All’interno del Cio ci sono percentuali di dirigenza sportiva femminile nettamente più alte. Come Coni siciliano stiamo cercando di inserire in tutte le commissioni esistenti dirigenti donne. Abbiamo voluto costituire la Consulta femminile, primo esempio in Italia, perché riconosciamo la necessità di fare valere le pari opportunità delle donne nello sport. Mi auguro che questo principio possa valere nel tempo, quando i dirigenti dovranno candidarsi alla presidenza delle federazioni. Ho confermato i sei delegati provinciali, ma su tre di loro due sarebbero dovute essere donne. Una delle due non ha voluto accettare: essendo molto legata al presidente uscente, e per una massima correttezza che si riscontra solo in una donna, ha rifiutato la proposta. Quindi è giunta la nomina di Aldo Violato. Fra quattro anni spero di avere un buon numero di donne presidente sul numero totale delle province siciliane”.
Oltre le “quote rosa” esiste un problema più grande: l’impossibilità di considerare professioniste le donne che fanno dello sport un lavoro. Perché questo ritardo?
“È una conseguenza di un maschilismo imperante che ha caratterizzato la politica e il mondo sportivo ancor di più. In società assistiamo già a delle aperture, ma il mondo sportivo rimane chiuso. Solo sei discipline hanno reso chiaro chi può essere considerato professionista sportivo e le donne sono chiaramente escluse”.
Per modificare questo status quo serve un’azione del Coni Sicilia o del Comitato centrale?
“Le modifiche vanno fatte a livello nazionale. Presto il presidente Malagò verrà in Sicilia, la Consulta femminile presenterà il suo libro e coglierà l’occasione per chiedere dei provvedimenti”.
Come può muoversi la sua presidenza per offrire maggiori certezze a quelle che vengono definite ad oggi solo delle “professioniste di fatto”?
“Non ho potere decisionale, ma aver costituito la Consulta è stata un scelta significativa. Intendiamo intervenire parlando con i vertici Coni e quelli politici, per cercare di favorire le pari opportunità. Sono troppe le donne professioniste che ufficialmente non lo sono. La pallavolo è ormai uno sport che ha il 60% di tesserate donne, professioniste che lo sport impegna completamente, ma non tutela come avviene per un atleta uomo fornito di contratto che ha valore”.