“Si tratta di un’azienda che opera in due settori: energie rinnovabili (nelle sue quattro declinazioni, eolico, fotovoltaico, produzione di energia da biomasse e teleriscaldamento) e ambiente, intendendo con tale termine il trattamento dei rifiuti industriali non pericolosi: dunque destinatarie dei nostri servizi sono le imprese e non il pubblico. Kinexia opera essenzialmente in Lombardia e Piemonte, anche se alcuni clienti, come Autogrill, sono di rilievo nazionale. Abbiamo costituito branch negli Emirati Arabi, in Turchia, in Marocco; da poco, al fine di gestire la parte internazionale, abbiamo aperto un ufficio a Londra. Di recente abbiamo lanciato un nuovo progetto, seguito da una società che si chiama Innovatec, quotata all’Aim (il mercato di Borsa dedicato alle piccole e medie imprese che vogliono investire nella propria crescita, ndr), che si occupa di fotovoltaico retail, dunque rivolto a famiglie e imprese, ma con una tecnica innovativa basata sullo storage di energia nell’ottica del risparmio e della riduzione dei consumi, un parametro su cui l’Italia non è ancora riuscita a raggiungere gli obiettivi europei. Il filo conduttore di questo progetto è, in sintesi, la sostenibilità ambientale e la riduzione dell’impatto per città, aziende e famiglie. Abbiamo investito in questa direzione e, devo dire, il mercato ci ha premiati: nel 2013 il titolo, nell’ambito della green economy, è stato performante.”
“Contiamo quest’anno di fare 200 milioni di euro di fatturato; i dipendenti sono circa 400.”
“Sì, anche se all’estero, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, ci chiedono maggiormente presidii ambientali. Prendiamo ad esempio la Cina che, nonostante sia diventato un gigante in termini di capacità economica, può considerarsi tale: Pechino, anziché venirci a chiedere energie rinnovabili, su cui è diventata campione mondiale, domanda di occuparci dei presidii ambientali. Recentemente abbiamo firmato, al seguito della delegazione del Presidente del Consiglio Matteo Renzi, due importanti contratti di depurazione di acque industriali ed energia da fanghi di depurazione di acque industriali: due progetti che, al di là dell’importante impegno economico, tutt’altro che secondario (55 milioni di dollari, ndr), ci hanno particolarmente inorgoglito.”
“Lo considero l’ultima batosta per il settore, che va nella direzione opposta rispetto a quella delle energie rinnovabili e che sta facendo fuggire molti investitori internazionali. Una cosa folle per raccattare poco più di 300 milioni di euro".
“Sì, energie rinnovabili e rifiuti industriali, quindi imprese. Con la dovuta precisazione che i rifiuti di queste ultime che noi trattiamo non sono molto diversi da quelli urbani. Tanto è vero che vengono definiti rifiuti assimilabili agli urbani. La differenza è che vengono prodotti dalle imprese anziché dalle famiglie e che, pur avendo gli stessi sistemi di smaltimento (termovalorizzazione, discarica, recupero), i rifiuti delle imprese hanno una maggiore componente che finisce in discarica, sebbene “specializzata”. Questo perché per i rifiuti industriali il legislatore non ha mai voluto dare un contributo energetico che riconosce, invece, per i rifiuti solidi urbani: questi, se li termovalorizzi, ti viene riconosciuto un “certificato verde”, un beneficio che va sulla fiscalità generale e che consente di tenere basse le tariffe. Per evitare che l’Europa considerasse questi “certificati verdi” un contributo indiretto, il governo, per i rifiuti industriali, non ha mai voluto rilasciarli. Kinexia ha fatto una precisa scelta di campo che va nella direzione europea di “valorizzazione” del rifiuto attraverso il suo recupero”.
“Noi a Torino abbiamo lanciato un progetto ribattezzato waste end: ci siamo seduti a un tavolo con Provincia, Regione e associazioni ambientaliste per condividere le scelte, poi abbiamo proposto un impianto che ha diverse tecnologie, fra cui una che recupera tutto. I rifiuti vengono scomposti nelle varie frazioni e solo una parte irrecuperabile, che si chiama Css (Combustibile solido secondario), viene avviato alle cosiddette cementerie, che producono cemento da carbone. In questo caso i rifiuti sono meno inquinanti del carbone (bruciando a 1.500 gradi non emanano diossina, quest’ultima il vero oggetto del contendere) e vengono considerati dalla legislazione italiana non più, appunto, rifiuti ma prodotto”.
“C’è poi una tecnologia che l’ex ministro dell’Ambiente Willer Bordon sta cercando di introdurre in Italia, anche se vanamente perché ancora non ha trovato una città disposto ad accoglierlo: quella della torcia al plasma, già utilizzata in un bellissimo progetto portato avanti a Londra da British Airways e British Petroleum. I rifiuti vengono scomposti in molecole e trasformati, successivamente, in jet fuel, carburante per aerei che, provenendo da fonti rinnovabili, non è soggetto al pagamento di accise. Si tratta di un progetto da 750 milioni di pound, quasi un miliardo di euro, che permetterà a British Airways di essere competitiva dal punto di vista tariffario. Il tutto senza l’incombenza della raccolta differenziata: un’idea veramente innovativa.”
“Questa è una vecchia battaglia. La Commissione Europea, l’unica ad avere diritto di legiferare in questa materia (le normative nazionali sono di recepimento e di esecuzione di quelle europee), ha elaborato le cosiddette “cinque priorità”: riutilizzo senza riciclo (meglio conosciuto come “mercatino dell’usato”), riciclo, recupero (anche energetico), termovalorizzazione, smaltimento. Dunque, ad oggi, per l’Europa lo smaltimento è l’extrema ratio; la termovalorizzazione la penultima opzione. Le prime tre, invece, per la Commissione rappresentano il futuro. In pratica l’invito di Bruxelles è quello di andare verso una società del riciclo. Nel senso che bisogna educare i cittadini a consumare meno, comunque consumare quei prodotti che non producono rifiuti e in ogni caso quelli che li producono, mantenerli nel ciclo produttivo fin tanto che è possibile. Di questi, solo la parte non recuperabile deve finire in termovalorizzazione o, peggio, allo smaltimento.
Detto questo, pur essendo un’incombenza per il cittadino, personalmente non ne ho una visione totalmente negativa: primo, perché differenziare è diventato un fatto di “costume”. Inoltre c’è un aspetto culturale: educa a ridurre gli sprechi. Sebbene da un punto di vista prettamente tecnologico sia un processo evitabilissimo: se uno decide di incenerire rifiuti per produrre energia, conferire rifiuti differenziati o indifferenziati non è che l’impianto se ne “accorga”. Quando ero Presidente di Assoambiente, dal 2006 al 2011, usavo due esempi per dire che la raccolta differenziata non poteva spingersi oltre un certo limite: il recupero dei pannolini dei bambini e dei fondi di caffè. Con le tecnologie di oggi si possono recuperare gli uni e gli altri.”
“Personalmente ho rinunciato a darmi una risposta. L’ultimo impianto realizzato è quello di Gerbido, a Torino: ci sono voluti sette anni e non ha avuto le barricate di Acerra, che di anni ne ha richiesti ben dodici. C’è pure un problema di natura politica: può accadere che un’Amministrazione presenti il bando e tu vi partecipi. Poi ci sono le elezioni e l’Amministrazione subentrante ti comunica che quel progetto non lo vuole più e tu devi riconvertirlo o si arena tutto: come successo in Sicilia, con la giunta Cuffaro che ricevette un plauso internazionale e investitori mondiali che mostrarono un concreto interesse. Poi con Lombardo non se ne fece più nulla. L’attuale governo regionale al momento non si è ancora espresso. Resta il fatto che in Italia, appena parli di termovalorizzatori o, prima ancora, di inceneritori ti ritrovi contro il medico (che magari “spara” che può nascerti un bambino con due teste) o il politico locale (impegnato a raccattare qualche voto in più). A quel punto, la gente non ti segue e non ti ascolta più: sei “nudo” e i progetti abortiscono. Addirittura un sondaggio ha rivelato che, dovessero scegliere, tra termovalorizzatore e discarica i cittadini preferiscono tenersi la seconda. Quando in Italia abbiamo impianti ipercontrollati e continuamente monitorati dalle Arpa regionali: se i limiti prefissati sono superati, la chiusura dell’impianto è immediata.
Visto che il problema è essenzialmente comunicativo e psicologico, si potrebbe ipotizzare un cambiamento di nome.
Potrebbe essere un’idea. Magari chiamarli come i londinesi impianti di produzione di energia, waste energy plants, che “suona” pure bene.”