Fino a oggi l’Isola ha ospitato 180 detenuti nell’ex Ospedale psichiatrico di Barcellona Pozzo di Gotto. In Sicilia attiva una struttura a Naso, presto ne verrà aperta un’altra a Caltagirone
PALERMO – 1° Febbraio 2013-31 Marzo 2015. Ventisei mesi, più di due anni, di proroghe, promesse, progetti carenti e carenze strutturali, ma finalmente il 31 Marzo scorso la chiusura degli Ospedali Psichiatrici giudiziari è divenuta realtà. Quei soggetti “pericolosi per la società”, secondo quanto disposto dal decreto-legge n. 211 del 22 dicembre 2011, verranno adesso ospitati nelle REMS, strutture residenziali socio-sanitarie per l’esecuzione della misura di sicurezza. Niente a che vedere con le ristrettezze di una cella o la scarse condizioni igienico-abitative del passato, un’assistenza sanitaria e psichiatrica adeguata al trattamento delle patologie mentali e alla reintegrazione sociale, secondo il principio costituzionale per cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Alla luce di tali esigenze di salute e civiltà, come si stanno organizzando le Regioni nella gestione di tali strutture alternative e quali le possibili ripercussioni della legge sulla sicurezza pubblica?
Al 31 Marzo, il Ministero della Giustizia riferisce che quasi tutte le regioni si siano già attrezzate per garantire la piena funzionalità delle REMS; un ritardo di qualche mese è previsto in Friuli Venezia Giulia, Puglia, Provincia autonoma di Trento e Piemonte. In Sicilia è già attiva la prima Rems di Naso, in provincia di Messina, e a breve sarà utilizzabile quella di Caltagirone, per ospitare i 180 detenuti dell’ospedale di Barcellona Pozzo di Gotto.
Già al 9 Aprile però i primi intoppi: succede in Emilia Romagna, dove il trasferimento dall’OPG di Reggio Emilia alle Rems di Parma e Bologna non risulta ancora effettuato.
L’effettiva fruibilità di una struttura idonea a “curare e riabilitare”, come conversione del vecchio “Manicomio criminale”, appare al momento impresa tutt’altro che semplice. A ciò si aggiungono i problemi nella gestione di gravi atti di autolesionismo, episodi di gravità eccezionale, come sbattere violentemente la testa contro il muro o tentare di darsi fuoco.
Se una nota positiva esiste (il numero degli internati è sceso da 1.282 nel 2001 a 988 nel 2013), la natura dei reati (nel 54% dei casi, omicidio o tentato omicidio), qualora vengano abolite celle o altre forme di detenzione, ridesta infatti legittimi fremiti di allarme sociale. Contrapporre civiltà e sicurezza non è però che una trappola, secondo Mario Sellini, presidente dell’Associazione Unitaria Psicologi Italiani, e, in questa conciliazione, due “armi” appaiono prioritarie: garantire alti livelli assistenziali, che non lascino da soli famiglie e pazienti, e agire tempestivamente per prevenire episodi di violenza e allarme sociale (come la possibilità di fuga in fase di trasferimento alle Rems).
Coniugare sicurezza sociale e rispetto della dignità umana è questione delicata che può, e deve, essere risolta con la collaborazione tra Rems e territorio (adozione di telecamere e sorveglianza esterna organizzata dalle Prefetture).
Vento di ottimismo dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, secondo cui non esisterebbe nessun pericolo per la sicurezza collettiva, poiché gli internati più pericolosi verranno ospitati in strutture più idonee per la cura, nella garanzia della sicurezza per la collettività. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, da parte sua, ha assicurato la più ampia collaborazione con il ministero della Salute per affermare il diritto alla cura e i livelli di sicurezza attesi dai cittadini.