In atto, in quel settore, vi sono 3,2 milioni di dirigenti e dipendenti, oltre a un milione che si trova nelle ottomila partecipate pubbliche. Non solo, nel calcolo precedente non si è tenuto conto di decine di migliaia di componenti dei Consigli di amministrazione e di altre decine di migliaia di revisori contabili, nonché di una miriade di consulenti esterni delle varie discipline che gravitano in enti e partecipate pubbliche.
I carrozzoni si sono moltiplicati e ora vi è il problema di dove collocare centinaia di migliaia di esuberi delle partecipate che, con il Dlgs di prossima pubblicazione, dovranno chiudere i battenti.
In questo tragico quadro emerge in tutta la sua negatività il servizio pubblico radiotelevisivo nel quale, nonostante i nuovi vertici (Maggioni e Campo Dall’Orto), si continua a sperperare il denaro dei cittadini, foraggiando tredicimila dirigenti e dipendenti, decine o centinaia di esterni, e tanti giornalisti che, pur non lavorando, vengono regolarmente pagati con stipendi fino a duecentomila euro lordi l’anno. Non si capisce, poi, perché ogni dipendente Rai debba avere una media di 60 metri quadrati per il proprio ufficio, i cui immobili raggiungono una superficie di 750 mila metri quadrati.
Meritoria è stata l’azione di trasparenza del Dg nel mettere sul sito i compensi del Cda e dei dirigenti. Non si capisce, però, perché la stessa trasparenza non debba essere utilizzata per comunicarci i compensi degli esterni, come Annunziata, Fazio, Frizzi o Giletti, come se tali compensi fossero cosa loro.
Lo stipendificio nazionale è stato copiato dalle Regioni, a Statuto speciale ed ordinario, e dai Comuni, nonché da altri enti pubblici, con la conseguenza che vi sono esuberi di ogni genere, mentre, per contro, rimane la pressione dei cosiddetti precari per essere stabilizzati, fatto vietato dalla Costituzione che prevede l’ingresso nella Pa solo per concorso.
Non si sa ancora se dovranno chiudere le partecipate con un fatturato inferiore al milione, perché vi sono pressioni in Parlamento affinché tale limite sia ridotto a 500 mila. In ogni caso, le partecipate non si ridurranno da ottomila a mille, come aveva proposto il commissario alla Revisione della spesa, Carlo Cottarelli, e come ha ribadito più volte Matteo Renzi. Ma, forse, ne verranno eliminate due o tremila.
Non è detto che tutte le partecipate pubbliche vadano chiuse, perché vi sono quelle attive, che producono reddito tassabile. Tuttavia, anche in questi casi, è necessario analizzare se tali redditi tassabili siano frutto di una gestione competente e oculata, oppure conseguenza di una rendita di posizione, che vìola la concorrenza e il principio di eguaglianza tra soggetti economici.
L’Italia dello stipendificio non è ancora morta, anzi continua a resistere, perché i cattivi amministratori pubblici, non potendo più assumere come nel passato, ingaggiano consulenti e dirigenti esterni, in quanto sostengono che all’interno dei propri enti non vi siano adeguate risorse professionali.
Ma, in questo caso, la strada sarebbe diversa: valorizzare, mediante adeguata formazione i propri interni, e licenziare (questo si può fare) quelli che non vogliono adeguarsi alle nuove necessità della Pubblica amministrazione, perché ancora pensano, egoisticamente, di essere servitori di se stessi e non dei cittadini.
Non sappiamo se questo governo riuscirà nell’intento di razionalizzare, semplificare e digitalizzare tutte le Pubbliche amministrazioni, anche perché ventuno Regioni e più di ottomila Comuni non sono gestibili se non con leggi ferree, che impediscano la continuazione dei comportamenti clientelari, che hanno caratterizzato l’ultimo trentennio.
Sappiamo solo che crescita del Pil, sviluppo economico e aumento dell’occupazione non potranno esserci se la guida del Paese non cambia il modo di condurlo.
