La responsabilità della spesa sanitaria è stata scaricata sui cittadini e sui lavoratori
L’idea di una sanità basata sul concetto di costo e non di fattore produttivo rappresenta il vero confine tra chi lavora quotidianamente nelle strutture sanitarie e chi immagina di governare i processi a distanza attraverso algoritmi finalizzati esclusivamente al contenimento della spesa sanitaria.
La lunga crisi economica di questi anni ha introdotto politiche restrittive in gran parte giustificate dagli eccessi che andavano senz’altro eliminati, ma la stessa crisi economica avrebbe potuto rappresentare una vera opportunità per ammodernare il nostro SSN cosa che, purtroppo, non è avvenuta per mancanza di un vero progetto di riforma.
Ci hanno pensato, nel bene e nel male, le singole regioni che, forti della propria autonomia, hanno adottato modelli organizzativi diversi tra loro. Con un rapporto spesa sanitaria/PIL tra i più bassi d’Europa, le insufficienti risorse assegnate alle singole regioni, che pur pesano nella misura del 72,9% della spesa corrente dei bilanci, hanno indotto le stesse regioni a fare delle scelte tenendo conto di due priorità: continuare a mantenere i costi delle proprie politiche locali e far fronte ai costi inevitabili delle costanti innovazioni della sanità. Ne consegue, pertanto, che la sostenibilità è stata assicurata in questi anni dall’incremento dei ticket del 41% (dal 2008 al 2015) e dal risparmio sul personale sanitario per effetto sia del blocco del turnover, che del mancato rinnovo dei contratti, che dalla proliferazione dei contratti atipici.
L’aspetto che maggiormente preoccupa è l’aver “scaricato” la responsabilità finale della spesa sanitaria direttamente sui medici e sui cittadini minandone definitivamente il rapporto fiduciario. La chiave di lettura è la cosiddetta “politica dell’appropriatezza”. Ovviamente non quella organizzativa, perché manca un progetto globale di sanità, ma quella clinica che interessa sia chi chiede una prestazione sanitaria (il cittadino) che chi la eroga (medico o sanitario).
Da un lato i pazienti, che sono costretti a pagare in proprio le prestazioni sanitarie (34,5 miliardi di euro la spesa annua in out of pocket) a causa dell’incremento dei ticket, dell’aumento dei tempi di attesa e, ovviamente, della ridotta offerta sanitaria pubblica; dall’altro il medico che è fortemente limitato, nella propria autonomia decisionale, da una medicina amministrata quale diretta conseguenza dei continui interventi restrittivi. Ma tutto questo non basta. Ed allora la necessità di dover implementare nuovi modelli organizzativi legati a bacini di utenza sempre più vasti, con strutture ospedaliere con sempre meno posti letto ed organizzate per intensità di cura, con medici costretti a lavorare tra più presidi ospedalieri anche a distanza di decine di chilometri tra loro e con l’obiettivo finale di avere sempre meno medici che verranno, in parte sostituiti, da altri professionisti con l’obiettivo finale di comprimere ulteriormente la spesa sanitaria.
Il modello di ospedale per intensità di cure è in linea con questi obiettivi e nulla sembra ostacolare il progetto attuativo pur nella consapevolezza che già l’esperienza dipartimentale stenta a decollare in ambito nazionale, che non esiste un’ampia diffusione del modello se non a macchia di leopardo e con variabili di non poco conto, e, soprattutto, che gran parte delle attuali infrastrutture non sono idonee ad ospitare la nuova organizzazione. Nel concreto, tuttavia, ciò che veramente preoccupa è il tentativo di utilizzare il modello di ospedale per intensità di cure per standardizzare l’impiego dei medici secondo un concetto “tempo-dipendente” costruito, non in funzione della complessità clinica ma del peso economico della prestazione sanitaria.
Il voler parametrare l’impegno clinico di un medico al solo peso economico è una follia soprattutto quando si ci trova di fronte ad un sistema, quello dei DRG, considerato obsoleto e vera fonte di inappropriatezza; avrebbe più senso, ad esempio, il sistema di classificazione Desease Staging basato sulla isoseverità clinica e non certamente sulle isorisorse. Ed allora: è questa la strada per ridurre il numero di medici e per costringere i medici a lavorare come in una catena di montaggio, senza autonomia e con tempi di lavoro sempre più ristretti?
Per chi soffre di amnesia è appena il caso di ricordare che la prestazione medica non si limita alla sola visita o procedura interventistica ma richiede la conoscenza del paziente dall’anamnesi all’esame obiettivo, al consenso informato, per non parlare di tutti gli atti burocratici consequenziali.
Immaginare, quindi, di standardizzare il lavoro del medico in pochi minuti è del tutto illogico, nonché pericoloso per il paziente. Se lo scenario verrà confermato, non ha alcun senso un rinnovo del contratto di lavoro a queste condizioni; piuttosto occorre un urgente confronto sul ruolo e, soprattutto, sul lavoro del medico nel SSN.
Guido Quici
Vice presidente nazionale vicario Cimo